Prosegue con sei nuovi episodi la narrazione della realtà distopica della serie antologica Black Mirror, prodotta da Charlie Brooker per Endemol.
Avvertiamo i lettori che da questo momento ci saranno pesanti spoiler sulla serie.
Si percepisce la mano di Jodie Foster nel secondo episodio “Arkangel”, che esplora le modalità di interazione tra genitori e figli e le ingerenze dei primi nella vita dei secondi. Il titolo fa riferimento a un’azienda che sperimenta un sistema di controllo, di cui si serve la protagonista per monitorare la figlia, e in grado di sfumare determinate realtà negative attraverso una sorta di parental control. Emergono prepotentemente rilevanti interrogativi: è corretto interferire nella vita dei propri figli? Quale la linea di confine? È giusto oscurare alcune verità legittimando, così, campane di vetro? Quali meccanismi potrebbero azionarsi quando si “apprende” la violenza in un determinato modo ed in un secondo momento. Credo la messa in scena renda perfettamente l’idea riguardo le nefaste conseguenze generate soprattutto da eccessivi intenti protettivi.
Il terzo episodio di Black Mirror, Crocodile, diretto da John Hillcoat mi ha fatto pensare ad una pellicola del 1994 diretta da John Waters, La signora ammazzatutti. Ricordate? Film con la superba Kathleen Turner, nei panni di una perbenista psicopatica che uccide le persone “scomode”. Concatenazioni di eventi e decisioni passate che minacciano ed influenzano il presente caratterizzano la vita della protagonista, Mia. Da un incidente con conseguente omicidio colposo si passa ad una serie di delitti volontari. La procedura di rimembranza, attraverso un dispositivo collocato dietro l’orecchio mi ricollega al terzo episodio della prima stagione “ricordi pericolosi”, in cui un grain posto dietro l’orecchio consentiva di riprodurre ricordi. Quanto è difficile beccarsi le conseguenze degli errori passati? Risulta difficile gestire i ricordi in un mondo (social) in cui perfino gli “accadde oggi” di facebook ci spiazzano! Riflessioni anche non pertinenti ai ricordi si accavallano, penso ad esempio ad un app medica di cui recentemente si parla, ovvero un dispositivo che misura parametri vitali e dolore del neonato.
In Hang the dj, diretto da Tim Van Patten si riflette sul libero arbitrio delle relazioni amorose e si muovono le fila di burattini robotici dotati di sentimenti. Coach è un sistema che mira a dar vita a rapporti sentimentali stabili attraverso vari tentativi. Nulla di nuovo se consideriamo i numerosi siti d’incontri che prolificano nell’odierna società; i protagonisti Amy e Frank sono, però, due “cavie” (più che anime) gemelle, altro non sono che una simulazione virtuale. Una volta testata la loro compatibilità, possono finalmente incontrarsi nella realtà. La necessità di tentativi falliti per apprezzare esiti a noi congeniali fa riflettere, ma si può sfuggire da alcuni algoritmi, calcoli, probabilità e percentuali? Scavalcare muri muri virtuali? Si possono pilotare emozioni altrui? Alcune cose sono davvero così “programmabili”?
Nell’ultimo episodio della stagione, diretto da Colm McCarthy, Rolo Haynes ospita all’interno del Black museum (che dà il titolo alla puntata) macabri oggetti collegati a crimini passati. Procedendo a ritroso e per analogia, vi è un richiamo a uno degli episodi a mio avviso più riusciti ovvero San Jupinero (programma che permetteva di vivere in un mondo virtuale), che qui è il nome della clinica in cui Rolo lavorava come ricercatore neurotecnologico prima di essere licenziato. Tra gli oggetti troviamo un diagnosticatore del sistema nervoso o meglio una rete di chip a forma di cuffia che tramanda le sensazioni di chi la indossa ad un altro soggetto e una scimmia di peluche in cui è intrappolata la coscienza di una donna (Carrie). Senza dilungarmi sulla trama, si continua a riflettere sulla trasmissione di coscienza, sulle dinamiche familiari, sulla difficoltà di non lasciarsi sopraffare dal dolore distaccandosi da un passato che rischia di interferire in maniera negativa col presente. L’aspetto sadico della serie emerge in maniera preponderante alla fine attraverso un ologramma ricavato dai dati della coscienza di un giustiziato sulla sedia elettrica (Clayton). I visitatori del museo traggono piacere nel castigare Clayton con scosse elettriche, che tormentano la sua coscienza senziente della vittima. Questa attrazione verso il dolore altrui mi ricollega inevitabilmente alla tv del dolore, alla morbosità di avvoltoi che speculano sulle disavventure altrui, alla voglia di alcuni spettatori di vedere personaggi noti (almeno per alcuni!) denutriti o in difficoltà in balia delle loro fragilità.
Intendo non soffermarmi, poco democraticamente, sul primo episodio della quarta stagione, USS Callister, diretto da Toby Hynes, in cui Robert Daly crea il gioco Infinity, a cui i partecipanti si connettono tramite un chip alla tempia. Ho letto pareri contrastanti a riguardo, a mio avviso una sovrapposizione poco riuscita di citazioni alienano lo spettatore coinvolgendolo poco, rendendolo quasi un avatar inerme.
Ancor meno curiosità ha destato in me Metalhead, diretto da David Slade, in cui la protagonista, Bella, lotta contro dei cani/droidi. Nessun “effetto Cujo” (tentato invano in Monolith); solo uno scarso coinvolgimento a livello empatico.