Chi siamo? Da dove veniamo? Ma soprattutto, dove stiamo andando?
Se le prime due domande sono quasi date per scontate, le risposte per l’ultima si trovano in una strada ancora tutta da definire, sia quanto a percorso sia quanto a confini da rispettare o meno.
La mostra Human+ Il futuro della nostra specie, rimarrà al Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 1 luglio 2018 e già dal titolo scelto dà più o meno l’idea di quel che ci si può aspettare. Più o meno, appunto. Se l’intento di chi l’ha allestita era quello di farvi entrare con un’idea e di farvi uscire attanagliati da sensi di sgomento, credetemi, ci sono riusciti in pieno.
Complice la serata calda e limpida, ma soprattutto l’iniziativa “Notte europea dei musei” – che ha visto, il 19 maggio, in svariate città del vecchio continente i principali musei aperti fino a notte inoltrata al simbolico prezzo di 1 euro – la risposta del pubblico non s’è fatta attendere e già ben prima dell’apertura delle 20 si registravano code di considerevole lunghezza.
Il Palazzo delle Esposizioni si conferma, ancora una volta, di ottimo livello per quanto riguarda le didascalie di spiegazione durante le varie tappe della mostra. Presentano un linguaggio chiaro e completo, condito di tecnicismi ma senza risultare incomprensibile per chi non ha gli studi necessari e soprattutto affiancano delucidazioni e riflessioni, in modo che chi legge è portato non solo a comprendere quel che sta vedendo, ma anche a rifletterci su: un connubio di comprensione e invito al senso critico che non sempre è riscontrabile altrove.
Si parte in maniera soft, con l’esposizione di protesi umane, definite però Capacità Aumentate. Già questo fa comprendere la direzione della mostra, che racconta come l’evoluzione delle protesi non sia una semplice “toppa” posta per sopperire ad una mancanza, ma un’opportunità per nuove capacità, magari migliori degli arti originali. Un vero e proprio invito a guardare il bicchiere mezzo pieno, a vedere nuovi traguardi laddove altri vedrebbero solo ciò che manca.
Fin qui, tutto regolare. Ma adesso inizia il bello.
Cosa succede se si utilizza la scienza per esplorare le proprie capacità, per estenderle oltre i propri limiti? Ci dà una sua risposta l’artista Saunders, che ha effettuato su di sé esperimenti degni del miglior Walter Bishop, cimentandosi in performance artistiche sotto l’influsso di sostanze delle più svariate. Al pubblico l’ardua sentenza.
Ma cosa succede, se si alza ancora l’asticella dei limiti?
E’ quello che si propone una vera e propria associazione, la Cyborg Foundation (non so a voi, ma a me vengono i brividi solo a pronunciare il termine), fondata del 2010, avente come scopo quello di aiutare l’umanità ad evolversi con tecnologie cybernetiche delle più disparate. Per chi pensa che siano solo parole al vento, ecco esposti due esempi, nei nomi di Neil Haribsson e Moon Ribas, due artisti che si sono fatti impiantare dispositivi tecnologici per avere capacità aumentate.
Moon possiede un braccio sismico: un vero e proprio sismografo impiantato al braccio, che le consente di percepire su di sé i terremoti del pianeta. Neil, affetto dalla nascita da una patologia che gli impedisce di percepire i colori, possiede un’antenna sul capo che gli consente di sentire tutta la gamma di colori, compresi ultravioletti e infrarossi.
Dai cyborg alla robotica vera e propria, il passo è breve. Come vi comportereste dinanzi ad un’intera parete di volti robotici che seguono i vostri movimenti e imitano il vostro sbattere le palpebre?
Vi posso dire la mia: brividi, e non di esultanza.
Tutto male, quindi?
No, la mostra non ha come intento quello di demonizzare il progresso di scienza e tecnologia, ma quello di far riflettere. Un esempio su tutti è la sala dedicata a quegli interventi di mappatura e manipolazione genetica per poter offrire un futuro migliore a molti. Sembra poca roba, ma si pensi alla zanzara che causa la malaria. Il progresso in campo genetico ha permesso ai ricercatori di creare insetti il cui DNA non permette la trasmissione del virus all’uomo ed in un futuro molto prossimo si pensa di liberare in gran quantità questi esemplari che, anche incrociandosi con i loro simili portatori della malattia, darebbero vita a larve innocue. Sarebbe la salvezza di centinaia di vite nelle zone più povere del mondo.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia: fino a che punto, quando invece l’intervento è sull’uomo, è lecito spingersi? A farci fare questa riflessione sono cinque sculture di neonati, realistiche in maniera impressionante, che provano a descriverci un ipotetico scenario futuro in cui sarà necessario modificare il nostro aspetto fin dalla nascita per vivere in un pianeta sempre più caldo e sempre più stressante.
Dall’inizio alla fine della vita.
L’uomo può intervenire anche al momento della morte?
Se devo essere sincera, queste ultime due sale espositive sono quelle che più mi hanno fatto riflettere, perché in ballo non c’è più la percezione dell’esistenza, ma l’esistenza stessa, modificata, manipolata, decisa a tavolino dal primo all’ultimo istante.
“Umano, troppo umano”, scriveva Nietzsche.
Ci aveva visto giusto, il filosofo tedesco, quando aveva parlato della scienza come di qualcosa di intrinsecamente umano per progredire e mettersi in discussione, per conoscere e per sbagliare, in continua lotta con la morale che spesso ha fatto da freno allo sviluppo del divenire.
Eppure, si sa, anche la migliore e più incredibilmente tecnologica delle automobili possiede un sistema frenante per evitare catastrofi. Sta al buon senso di tutti noi trovare quella giusta via di mezzo che promuove lo sviluppo dell’umanità senza ridurla a numero o a cavia, affinché il progresso non solo ci aiuti a diventare migliori, ma sia anche distribuito in maniera davvero equa e non un appannaggio di pochi eletti.