Risulta quasi impossibile non cogliere la cifra stilistica di Alfonso Cuarón nel lungometraggio di fantascienza “I figli degli uomini” (2006), tratto dall’omonimo romanzo di Phyllis Dorothy James. Il cineasta messicano proietta in un futuro distopico tematiche sempre attuali e immortala soggetti alle prese con la loro sete di potere. Con il rischio di estinzione. Con le loro fragilità.
Nell’Inghilterra del 2027 la specie umana non può più riprodursi e mentre gli abitanti piangono per l’uccisione dell’ultimo nato, il diciottenne Baby Diego, l’ex attivista politico Theolonius Faron (Clive Owen) è rapito dai Pesci, un gruppo terroristico. La sua ex moglie Julian Taylor (Julianne Moore), leader del gruppo, gli chiede di ottenere un lasciapassare per una giovane ragazza di nome Kee (Claire- Hope Ashitey). Theo persegue l’obiettivo grazie allausilio del cugino Nigel (Danny Huston), un uomo saggio e positivo, che si ostina a conservare alcune opere d’arte presso l’Arca delle arti “nonostante tutto”.
Tutelare il “progetto umano” a costo della propria vita…
Il protagonista scopre che Kee è incinta: un’ipotetica nascita, che infonde speranza e la missione ultima diviene quella di farle raggiungere, attraverso quello che si potrebbe definire il viaggio della speranza, la nave “Tomorrow”.
Quanto costa tutelare il “progetto umano” in termini di vite sacrificate? La riuscita della missione, in un mondo afflitto da tensioni socio-razziali e violenze perpetrate per fini politico-economici, ha un caro prezzo. Lo comprende, ad esempio, Jasper Palmer (Michael Caine), amico fidato di Theo ed ex vignettista politico, che si prende amorevolmente cura della moglie, ormai catatonica. Un personaggio anticonformista e fedele, fino alla fine, all’amico e alla missione, a costo della propria vita. Jasper non è l’unica vittima. Purtroppo.
Jasper: “Ci facciamo arrestare tutti…la guardia di confine a cui vendo la roba, ha detto che ci fa entrare a Bexhill. Non lo trovate ironico, scappiamo in una prigione!”
La pellicola drammatica, che ottenne tre nomination agli Oscar e il premio Osella per il miglior contributo tecnico a Venezia, ha il pregio di umanizzare paure umane ed elevare sentimenti “dignitosi” e mai retorici; si avvale, inoltre, di una nitida fotografia, che si contrappone ad un’atmosfera cupa. Un Cuarón, in un certo senso, “ottimista” prova a “fertilizzare” brandelli di umanità, auspicando pacifiche convivenze multietniche. Non si tratta di un futuro così lontano e Theo, parafrasando Roy Batty (Blade Runner, 1982), vede cose che gli umani possono immaginare…