Perché scrivere (finalmente, e dolorosamente… sapete perché) un articolo su una mostra che si è già conclusa? Innanzitutto perché “Io ero, sono, sarò” è un’esposizione itinerante e dopo esser stata ospitata due volte a Milano (al Castello Sforzesco questa estate e fino al 6 novembre all’Istituto Europeo di Oncologia) girerà l’Italia. Poi perché esiste un catalogo stupendo collegato a un progetto solidale. E poi perché è un “work in progress”: sul sito dedicato si possono trovare infatti approfondimenti, nuove storie, nuove foto, nuovi video… l’opera originaria insomma cresce col contributo dei visitatori dal vivo e online.
Una cosa inedita, ma non ci si poteva aspettare altro da Silvia Amodio, artista sensibilissima che ha cominciato il suo percorso laureandosi in filosofia con una tesi sperimentale (svolta alle Hawaii) sulle competenze linguistiche dei delfini, per diventare poi fotografa, giornalista e documentarista. Arte e impegno sempre coniugati nel trattare temi laceranti, dall’albinismo in Burkina Faso alla pedofilia del clero, dall’Aids in Sudafrica ai bambini lavoratori in Perù. Inoltre da alcuni anni promuove HumanDog, altro progetto itinerante che indaga la relazione tra cane e umano.
L’ho incontrata il 19 maggio scorso all’inaugurazione della mostra al Castello Sforzesco, un pomeriggio intenso con interventi istituzionali e non, e animazione musicale di un gruppo swing (una delle cantanti era una delle donne ritratte nella mostra). Poche parole, il tempo di dirmi che da tempo pensava a un progetto del genere, che poi si è realizzato a partire da un’idea di Coop Lombardia; dopodiché è stata giustamente reclamata dalle “sue”signore, presenti in massa, molte con ancora visibili i postumi delle cure. E tutte bellissime, con una luce dentro. Ma la gente era talmente tanta (rifugiatasi poi sotto il porticato durante il temporale!) che il grande Cortile della Rocchetta faticava a contenerla; nutrita soprattutto la rappresentanza delle “dragonnettes”, squadre di donne operate al seno che si dedicano alla voga con le dragonboat, le gare si tengono un po’ in tutta Italia (ma non sul Lago di Como dove abito io: la mia fisioterapista dice che da noi “le donne non ne vogliono parlare, non vogliono neanche che si sappia”…).
Questa mostra fotografica, che ha avuto un’anteprima nel 2017 a Ibiza con la presenza festosa di una trentina delle partecipanti al progetto, raccoglie scatti e storie di 49 donne e un uomo operati per carcinoma mammario. Silvia ha allestito il set a casa propria, con la presenza di un truccatore professionista, e avvolgendo le “sue” signore in un impalpabile velo bianco: ognuna lo porta come meglio si sente, a volte coprendo e a volte scoprendo le cicatrici o la mancanza dei capelli, giocando con la casta trasparenza del tulle.
E poi ognuna racconta la sua storia: c’è chi si era sentita rifiutare gli accertamenti diagnostici da medici che sostenevano che era troppo giovane (ma purtroppo la fascia d’età si sta drammaticamente ampliando rispetto alla tradizionale 50-69…); chi aveva assistito da bambina alla malattia della madre e poi dopo di sé ha visto ammalarsi la propria figlia; chi ha visto il compagno dileguarsi alla diagnosi e chi invece l’ha mollato lei comprendendo che la vita è troppo breve per sprecarla con qualcuno che non vale la pena; chi si è accorta dell’ospite indesiderato mentre stava allattando, chi era in viaggio di nozze; chi deve ringraziare il gatto che bizzarramente continuava a toccarle un seno, chi ha visto in sogno qualcuno dei propri cari che la metteva in guardia… (E non c’è niente di incredibile in queste storie, lo posso assicurare.)
Il titolo riecheggia una nota canzone ma si riferisce alla scoperta dell’autrice che psicologicamente le donne dividevano la propria vita in tre periodi, prima, durante e dopo la malattia. “I loro corpi e le loro parole” (si legge sul catalogo edito da Terre di Mezzo, con una presentazione del celebre fotografo Giovanni Gastel) “narrano delle molte forme che possono assumere la lotta, il dolore e la speranza. Ma affermano soprattutto il traguardo di una rinascita”.
Durante il progetto è nato un bellissimo rapporto tra i partecipanti, ed è nata un’energia: che si sta riversando sulla pagina facebook dedicata, e che sento riversarsi fuori nelle tappe della mostra. Mi auguro faccia molta strada, per sensibilizzare sulla prevenzione e per dare speranza e forza a chi sta vivendo questa esperienza. Per concludere vorrei fare mia la frase di una delle signore intervistate, che festeggia l’anniversario della diagnosi, sentendosi dentro, come diceva un poeta, nel bel mezzo dell’inverno un’invincibile estate: questo tempo non l’ho trascorso a curarmi, ma a vivere intensamente.
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