Qualche tempo fa vi abbiamo proposto un parziale resoconto dell’evento “Cena al castello. La cucina nelle ville del Lario tra Settecento e Ottocento”, tenutosi al Castello di Urio (vicino Como) grazie alla collaborazione tra Società Archeologica Comense, Associazione Provinciale Cuochi di Como e Associazione Le Magnolie (che gestisce lo storico palazzo).
Ed ecco qui il “succo” vero e proprio della serata, ovvero l’illustrazione storica a cura di Rossano Nistri e il goloso menu.
Il trionfo della cucina franco-lombarda
Un accenno all’ambiente socio-culturale di fine ‘700: si prepara la Rivoluzione Francese, nell’Illuminismo si alimenta il gusto del Classicismo e poi del Romanticismo. Qui sul lago di Como maturava la vocazione del turismo d’élite, i primi grandi alberghi accolgono ospiti illustri e diventano internazionali.
In cucina però solo nella seconda metà dell’800 nascono le specialità emblema del lago: ad es. riso e persico, o paté di cavedano (un pesce prima “da popolani” per il fastidio delle numerose lische).
Tra fine ‘700 e primi dell’800 la cucina ha ancora caratteristiche rinascimentali, innanzitutto il servizio all’italiana: un gran numero di pietanze portate assieme sulla tavola, dolci e salate.
La cucina francese è arrivata in Lombardia attraverso il Piemonte. Pietra miliare il volumetto “La cuisinière bourgeoise” di Menon, 1740 circa; molte ricette le ritroviamo ancora nel 1885. Qui avremo “La cuciniera lombarda”, “Il cuoco piemontese”, con interessante sottotitolo “perfezionati a Parigi”!
Le caratteristiche della cucina antica erano: Quantità – Rinomanza e grossezza degli ingredienti (es. “un tacchinone”…) – Copertura con intingoli speziati o con salse utili per la conservazione – Apparecchio e decoro della tavola (sculture di ghiaccio, di zucchero, di tovaglioli…).
Gli Illuministi hanno diversa ideologia: cibi sani e digeribili, quanto basta a soddisfare, banditi sughi e condimenti pesanti, esclusione di erbe che danno cattivo odore (come il cavolo).
Antoine Carème cuoco di Talleyrand comincia a mettere in pratica questi dettami, anche introducendo erbe aromatiche di gusto fresco come la segrigiöla (timo selvatico, nel riso del menu).
Su queste basi comincia la crescita della cucina qui sul lago di Como.
L’aristocrazia punta all’eleganza ma non dimentica di essere lombarda: cioè… non si può scialacquare.
“L’Apicio Moderno” del 1797 è di Francesco Leonardi, cuoco dell’imperatrice Danielina di Russia. Citiamo poi la “Cucina facile ed economica” di Antonio Odescalchi, comasco ultimo della famiglia ad esser proprietario di Villa Olmo, 1824. “La cucina degli stomachi deboli” pubblicata anonima da un medico lecchese (Angelo Dubini), primario di un ospedale milanese. “Il nuovo cuoco ticinese” di Luigi Franconi ecc.
Insomma cuochi che hanno praticato ai massimi livelli. Tuttavia a giudicare dai menu il mito della quantità persiste…
Nel 1850 abbiamo “L’arte di convitare” di un giornalista milanese: il pranzo di buon gusto dev’essere al massimo di 5-6 portate (nella consueta sequenza frittura-lesso-arrosto) più insalate, affettati, pesce e dolce. L’Artusi dà liste di menu per varie occasioni… e sono sempre una decina di portate!
Per la serata al Castello comunque c’era servizio alla russa (un piatto alla volta) e col nostro attuale ordinamento, cioè antipasto, minestra come primo, secondo di carne con contorno di verdure, e dessert.
Il Menu
Quenelles di riso alle erbe e prosciutto cotto, dallo “Scalco” del Latini, libro del 1695 ripubblicato ancora nel 1782. Un risotto al dente a cui si aggiungono a fine cottura erbe aromatiche fresche tritate (prezzemolo, maggiorana, timo e salvia), pepe, burro, formaggio e tre tuorli d’uovo; quando è tiepido si formano delle polpettine ovoidali inframmezzate da rotolini di prosciutto cotto, e si gratina in forno per dieci minuti. La “rivisitazione” ad opera dello chef della serata è consistita nell’accomodare il riso non dentro i rotoli di prosciutto ma ai lati, a mo’ di ali di farfalla.
Zuppa della Regina (o alla Regina), nella versione del medico Dubini con animelle di vitello (oppure pollo); gli altri ingredienti sono pane ammollato nel latte, brodo di carne, mandorle dolci, sale e pepe. Il tutto, passato o frullato, si serve su fette di pane abbrustolito.
Manzo alla Miroton, da Menon, dove miroton significa semplicemente stufato, stracotto, che all’epoca veniva cotto già a fette: quattro minuti per parte, in un intingolo composto da brodo, cipolle, farina, vino bianco, moutarde de Dijon (senape) diluita, sale, pepe e noce moscata.
Fagiolini alla Maître d’Hotel, dalla “Cuciniera Lombardo Veneta”, cioè bolliti e poi saltati nel burro e conditi in fricassea o limonìa (rosso d’uovo e limone).
Biancomangiare al caffè dell’Odescalchi, un residuo del piatto medievale che si faceva con carne o pesce e resiste fino all’800 come cibo ritenuto adatto anche ai malati; però scompare la parte amidacea (riso o simili) e anche la carne, e resta un dolce simile alla bavarese. Si fa con gelatina, panna e zucchero, aggiungendo a piacere il caffè oppure cannella o fragole o sugo di altra frutta.