BUSTO ARSIZIO IN DELIRIO PER STIVELL
“Maestro, dell’Italia che cosa ama di più?” “L’atmosfera generale, il feeling che c’è ovunque, l’affettuosità e il calore della gente”. Poche parole rubate ad Alan Stivell a margine dello strepitoso concerto tenuto domenica 11 settembre al Festival Interceltico Bustofolk.
Il Museo del Tessile ha ospitato la quindicesima edizione di cui diamo qualche numero: dieci giornate, circa 25 concerti, quattro mostre, nove conferenze, dieci stages di danza e poi campi storici, bancarelle, gastronomia, concorsi, teatro, attività per i più piccoli. Tanti anche i comaschi e i lecchesi, sia tra i volontari in servizio (l’Accademia di danze irlandesi Gens d’Ys che organizza la manifestazione ha aperto l’anno scorso anche una sede a Como) sia tra i conferenzieri (ricordiamo il saggista lecchese Paolo Gulisano), tra i musicisti che si sono esibiti (come la GPOH Geriatric Popoliphonic OrchestraH… scritta proprio così) e naturalmente tra il pubblico.
Tra le delizie per il palato mi si permetta di segnalare la marmellata ecosostenibile di mela e menta di Druantia e l’Irish Coffee (fatto apposta per me… non era nel menu) dai simpaticissimi ideatori de La Gustosa Tazzina, una vera collezione di tazzine da caffè o sorbetto realizzate in una sorta di pastafrolla aromatizzata con vari gusti o rivestita di cioccolato… quel che ci voleva per tirare le due di notte.
Il clou della manifestazione è stato l’attesissimo concerto di Stivell, un vero mito della world music, considerato il “padre” della moderna musica per arpa celtica, oltre sessant’anni di carriera dove la musica andava di pari passo col recupero della lingua bretone e con la scelta dell’indipendentismo. Questa l’idea di Stivell, che suona con musicisti e cantanti berberi e nepalesi, italiani e senegalesi: le differenze di lingua e di cultura arricchiscono l’umanità.
Per me un sogno realizzato, dopo il mancato concerto luganese (rinviato di ore per pioggia) circa trent’anni fa; la nascita della passione per questo insolito musicista è stata l’unica cosa bella di una dolorosissima cotta adolescenziale, e tutto quello che ne è rimasto. Per cui c’era una certa emozione. Ma non solo per me.
Il pubblico sembra tenere il fiato quando, dopo i saluti dell’amministrazione comunale, sale sul palco quest’uomo fisicamente minuto ma di fortissima presenza scenica, che comunica mescolando poco italiano a un inglese dall’accento spiazzante; vestito di nero (con un enorme ciondolo a forma di triskell sul petto) sembra ancora più magro, ma con braccia piene di nervi e mani bellissime. A 72 anni suscita ancora brividi quando intona la prima ballata in lingua bretone con la sola voce nuda, senza strumenti. Con un classico come Brian Boru (che per la prima volta sento in versione cantata) scatena la folla. In ricordo della Rivolta di Pasqua del 1916, una delle tante insurrezioni irlandesi soffocate nel sangue, propone poi la tradizionale e struggente The Foggy Dew. A un certo punto lascia l’arpa per sparire in un angolo del palco e ricompare con una cornamusa: è un’ovazione. Più tardi imbraccerà una sorta di ciaramella. Insegna al pubblico un breve ritornello da ripetere, e dal fondo della platea qualcuno esclama “Tri Martolod!” riconoscendo un altro grande successo di qualche decennio fa (il titolo non significa “Tre stupidotti” come potrebbe sembrare in lombardo, ma trois matelots, tre marinai: tre bretoni emigrati a Terranova che in un bar s’imbattono in una ragazza già conosciuta al mercato di Brest).
Una decina di spettatori si alzano e improvvisano un AnDro (tipica danza bretone), alcuni sventolano la bandiera nera e bianca della Bretagna. Quando arriva a Brezhoneg Raok arrivano anche le lacrime… le mie: l’avevo imparata tutta, 35 anni fa. E ancora la Symphonie Celtique, l’inno bretone O Breizh. L’entusiasmo è alle stelle, l’artista si congeda ma viene richiamato sul palco, i bis si susseguono.
E alla fine nel cortile del Museo del Tessile, non saranno stati i 10.000 spettatori dello storico concerto all’Olympia di Parigi, ma erano tutti in piedi.
L’ufficio stampa aveva definito “blindato” il personaggio, che tuttavia per almeno mezz’ora si concede agli autografi, agli abbracci e alle foto, con grande amabilità. Anche se all’ingresso qualcuno mi aveva bisbigliato “Ha tre buoni motivi per essere caratteriale: ha una certa età, è bretone, ed è un divo”.
Grazie di tutto, Maestro.