L’autobus delle 7:30 del mattino, diretto verso la metropolitana, è un microcosmo che viaggia nel travagliato traffico cittadino della capitale. C’è lo studente che, seduto in fondo al mezzo, ripassa su un foglio fitto di appunti evidenziati con colori sgargianti. Il gruppetto di adolescenti che sostano perennemente davanti alla porta d’entrata. Come riescano a stare in piedi mentre digitano con entrambe le mani sul cellulare, per giunta a velocità della luce, per me rimane un mistero.
Due signore, sedute l’una accanto all’altra, parlottano tra di loro delle rispettive cure mediche, confrontando gli ospedali cittadini.
E poi ci sono loro, li noto solo quando arriviamo alla fermata della metro, che proverbialmente dà il via alla gara a chi scatta più veloce fuori dalle porte.
Scendono insieme e si avviano con calma, mentre passanti frettolosi ed assorti li scansano e li superano con agilità. Camminano fianco a fianco, parlandosi piano, il più giovane tiene l’andatura del più anziano, che ogni tanto gli si poggia al braccio. Indietro di qualche passo, io mi perdo ad osservarli. Mentre tutta la città si muove frenetica, loro viaggiano nella loro isola di tranquillità.
“Papà, hai la scarpa slacciata.” È la frase che fa fermare il tempo.
Lacci marroni che toccano terra ed un corpo non più giovane che si piega lento lento, il movimento tipico di chi non ha più le articolazioni che rispondono subito ai propri desideri.
“Lascia, faccio io.” dice il giovane uomo. Poggia a terra la ventiquattrore di pelle scura e si china a fare un gesto che quel genitore gli avrà insegnato, chissà quante volte, un bel po’ di anni prima.
L’ampio piazzale, con i viaggiatori dal passo spedito, gli studenti che chiacchierano ad alta voce, i ritardatari perennemente di corsa, tutto scompare dinanzi alla mano rugosa di un anziano che si posa gentile sul capo del figlio, indugiando in una lunga carezza.
L’asola è ricomposta, la valigetta di nuovo tra le mani. In sottofondo un treno corre veloce e tutt’intorno la routine riprende a scorrere come se nulla fosse accaduto.
Auguri a tutti i papà.
A quelli che stanno insegnando ai loro bimbi ad allacciarsi le scarpe.
A quelli che stanno cercando di convincere i loro figli adolescenti ad allacciarsi le scarpe, mentre la moda impone ben altro.
A quelli che hanno bisogno dei loro figli per allacciarsi per scarpe.
A quelli che son padri non di carne e sangue, ma di cuore e con tutte le loro fibre, poiché paternità non è solo capacità generativa, ma amare e crescere qualcuno con tutto se stessi.
A quelli che un paio di scarpe nemmeno ce l’hanno, né per se stessi né per i propri figli, e attendono l’incognita di un futuro alle soglie di un’Europa con troppi punti interrogativi.
A quelli che stringono tra le mani le scarpe dei propri figli, ma quelli non ci sono più e allora si domandano che senso abbia la vita se quella che hai generato è stata spezzata anzitempo.
A quelli che non ci sono più, volati via prima del tempo, o alla fine di una lunga vita. Assenze impossibili da colmare, ricordi indelebili tracciati prima nel cuore e poi nei pochi oggetti rimasti. Due sillabe che racchiudono un mondo, presenze silenzione che in parte ogni figlio sa di portare con sé, nel fisico, nel carattere o in una passione comune.
Papà, auguri!
Chiara Liberti
Ci sono tante storie d’amore che ho amato e non tutte parlano del rapporto di coppia.
Il rapporto tra genitori e figli è sempre complicato.
Non è facile essere né l’uno né l’altro, anche nelle situazioni migliori, figuriamoci in quelle peggiori, ma ammetto che pure in queste prediligo il lieto fine.
E’ un mio limite.
Non è un mistero per nessuno che il rapporto che amo di più di Fringe è la meravigliosa relazione tra Peter e Walter, cresciuta giorno dopo giorno, mattone su mattone, attraverso litigate, discussioni, urla, risate, passioni reciproche, come cibo e scienza e un affetto fortissimo che li spinge l’uno a perdonare l’impossibile e l’altro a diventare un uomo migliore, per essere finalmente un padre degno.
Non è un caso che gli autori abbiano lasciato tanto scorrere tanto tempo prima di far sì che Peter chiamasse “papà” Walter e purtroppo avviene nel momento peggiore, solo che questa è un’altra storia.
E’ stupendo che si lanci il messaggio: questo titolo devi meritarlo, non è scontato, non è dovuto.
Ci vuole veramente un gran coraggio a sapere perdonare un uomo così, ci è voluto un grande cammino interiore e ci è voluto veramente un gran coraggio a cambiare per diventare degni di tale definizione.
Il perdono e il cambiamento non sono mai cose facili.
Rimanda, questa storia, ad un’altra, quella tra Luke e Anakin/Vader, dove il primo, all’inizio rifiuta quel padre e poi decide di dargli una chance perché ha sentito che c’è qualcosa di buono in lui. Lo ha percepito.
L’amore filiale che sa andare oltre le apparenze, il dolore, il risentimento per dare una chance ad un uomo che, di fronte a questo amore infinito, fa cadere letteralmente la maschera e torna l’uomo buono che era.
Entrambe queste storie mi fanno venire in mente una canzone meravigliosa:
“Ti lascerò” dove si parla del difficile compito dei genitori, di mettersi da parte, di lasciar vivere i propri figli, sapendo che potranno soffrire, mostrandosi pronti a essere al loro fianco nei momenti bui.
Questo è l’amore genitoriale.
Un compito difficile per mamma e papà, per quelli veri, anche i miei.
Non deve essere proprio facile lasciar andare.
Chissà che dolore e che paura.
A proposito di lasciar andare.
Mi sono ricordata di Mr Bennet, un padre all’apparenza frivolo, svagato e cinico, che nel corso del romanzo “Orgoglio e pregiudizio” saprà mostrare il suo lato più vero e umano, sapendo prendersi le responsabilità dei suoi errori e sapendo mostrare cosa significa amare le proprie figlie sia quando sbagliano sia quando sono felici.
Una delle scene che amo di più in assoluto è quando, nel finale, svela alla figlia Elizabeth di essere stato quasi costretto a dare il suo consenso a Mr Darcy. Ha il solito tono svagato, ma in realtà è molto preoccupato per la figlia.
Lei lo rassicura:
“Se solo potessi mostrarti la sua bontà. E’ davvero l’uomo migliore che abbia conosciuto.”
E lui conclude con un sorriso dolce e paterno:
“Non avrei potuto accettare di perderti per niente di meno.”
E mi è venuta in mente un’altra cosa, scusate se sto andando a zonzo, ma tempo fa lessi una bellissima lettera di Mia Martini a suo padre, un uomo con cui aveva avuto un rapporto molto difficile da piccola e che infine ha saputo perdonare.
La lettera si concludeva con queste parole:
“Sono felice di avere un padre e che quel padre sia tu.”
Ecco io la penso uguale, papà.
Tanti auguri.
Silvia Azzaroli