Non sono una grande amante del cinema italiano, questo lo premetto e lo devo assolutamente dire; se fosse per me rinchiuderei gran parte dei film italiani contemporanei in un forziere di cui butterei via la chiave, farebbero eccezione solo la mia smisurata adorazione verso Paolo Sorrentino e l’elevata stima che nutro nei confronti di Pier Francesco Favino. Ai film della penisola preferisco quelli americani, forse perché amo gli effetti speciali, le scene di guerra o forse semplicemente preferisco non pensare, almeno all’interno di una sala cinematografica, ai numerosi problemi che affliggono il nostro paese. Spesso mi capita di fare un’eccezione, mi ritrovo a recuperare vecchie pellicole, più o meno note, per seguire il sentito dire o per capirne di più riguardo a qualche polemica. Qualche giorno fa sulla home di Facebook mi è apparso un articolo piuttosto datato condiviso da uno dei miei contatti riguardo la grande polemica nata circa 3 anni fa intorno al film di Virzì “il capitale umano”. Secondo quanto riportato da quella e da numerose altre fonti, gran parte della popolazione lombarda si era sentita offesa da tale sceneggiatura tanto da muovere pesanti critiche verso l’intera produzione. Da brianzola doc non lo avevo mai soppesato più di tanto la cosa, commentavo piuttosto con un deciso “un regista non può permettersi simili cose, hanno ragione”, ma per la verità io fino a l’altro ieri questo film non l’avevo mai visto.
La trama della pellicola è abbastanza semplice ed è improntata sulla vicenda di due famiglie piuttosto facoltose accumunate da un intreccio pseudo amoroso e affari azionisti. Una sera un ciclista muore dopo essere stato investito da un enorme suv, questo fatto apparentemente insignificante sconvolge a loro modo la vita dei protagonisti. Quello ad interessarmi non è stata tanto la trama che non ha nulla di eccezionale, quanto gli ambienti, i personaggi, ma soprattutto la Brianza. Nelle quasi due ore del film il mio unico obiettivo è stato chiedermi in che modo Paolo Virzì avesse potuto insultarci, sono partita prevenuta convinta che quell’aspra critica diretta fosse più che evidente ma mi sono trovata costretta a tornare sui miei passi. I due capi famiglia, Giovanni e Dino, interpretati rispettivamente da Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio, sono i due classici ruffiani con la lingua lunga e che pensano solo ai propri interessi. La parlata lombarda è inconfondibile, ma nel loro accento di brianzolo ci ho visto ben poco. Mi è sembrato piuttosto una grande caricatura del tipico milanese, così come lo vediamo noi della Brianza, ben vestito e interessato solo agli affari, con il classico “figa” inserito ogni due parole e l’articolo che accompagna ogni nome proprio. Per noi queste cose sono sempre state un po’ da marziani, appartenenti ad una categoria che siamo i primi a criticare. L’accanimento, non poi così tanto feroce, di Virzì mi sembra piuttosto rivolto verso il classico milanese in trasferta, quello che vive in periferia, ma si sente appartenente alla città dove ci sono tutti i suoi affari, di brianzolo ci vedo ben poco. Posto sotto il giudizio di qualcuno da fuori si potrebbe fare di tutta l’erba un fascio, “brianzoli, milanesi, lombardi, ma che differenza c’è?” un po’ come facciamo noi con i meridionali, lo avrei potuto accettare, ma questa cosa che le critiche contro il regista sono proprio arrivate dalla popolazione brianzola non me le spiego. Se le famiglie si fossero chiamate Fumagalli e Brambilla, quelli che da noi sono i cognomi più diffusi, avrei gridato lo scandalo, ma tra Bernaschi e Ossola, qui in zona se ne vedono davvero pochi in giro, bisognerebbe andare fino a Varese per trovarli.
La vicenda è ambientata a Ornate, un paese immaginario, secondo il regista il fatto che abbia il finale in “ate” basta a collocarlo in Brianza. Io della nostra zona ci ho trovato ben poco, giusto qualche campo qua e là ma paesi così sovrabbondanti di case e vie così ampie in centro città mi sembra di non averle mai viste nel mondo reale. Per contestualizzare meglio il tutto è stata fatta la scelta di prendere come riferimento un giornale locale, la Prealpina che riporta prontamente ogni vicenda; viene citato il nome di questa testata quasi a voler sottolineare che il tutto si svolga proprio in quel luogo. In realtà però in Brianza la Prealpina è solo uno spettro o più semplicemente non esiste, le nostre edicole non la vendono e per averne una bisogna partire in trasferta in provincia di Varese. Penso che molto probabilmente in questo caso sia avvenuto un vero e proprio stravolgimento di geografia, da quando Varese è in Brianza? Mi è sembrato che l’ambientazione, gli stereotipi e la parlata siano qualcosa di molto forzato. Nel film di Brianza non si parla per niente, la si nomina solo nel soggetto quando si introduce l’ambientazione con “in un paese che finisce in ate in Brianza….”, ma perché questa specificazione? Il tutto sarebbe potuto essere tranquillamente omesso, nessuno si sarebbe accorto di nulla.
È bastata quella specificazione per creare il putiferio, in occasione dell’uscita del film numerosi articoli e proteste sono state potentemente mosse dai brianzoli contro Virzì. Ma parliamoci sul serio, in cosa ci avrebbe criticato? In fin dei conti viene mostrata la vicenda del finto milanese che noi siamo i primi a criticare e dal quale ci vantiamo di prendere le distanze, è ambientata in un luogo talmente incasinato geograficamente da essere fantascientifico. Quello che mi pare invece è che tutto giochi a nostro favore, siamo sempre stati un popolo di contadini, quelli che quasi lavorano gratuitamente per fare un favore a qualcuno, odiamo le ville sfarzose e critichiamo gli uomini d’affari, praticamente da anni per valorizzare le nostre origini portiamo avanti una campagna di distaccamento che Virzì riassume in maniera alquanto frammentaria in due ore di film. La pellicola non ha niente di eccezionale, ma sicuramente fa riflettere, non su un popolo ma su una categoria di persone, quelle che vivono alle spalle degli altri e delle quali l’Italia pare sempre più essere popolata.
Leggendo critiche così spropositate mi rendo conto di quanti invece siano i malati di tastiera e gli scrittori improvvisati che dopo aver visto un articolo riguardante le possibili critiche alla Brianza apparso su un grande quotidiano nazionale, non hanno perso tempo e hanno incominciato le proteste, ma sono più che sicura che sommato tutto queste persone il film nemmeno lo hanno visto. Io ho rischiato di essere una di quelli, ma prima di parlare ho preferito guardare con i miei occhi senza farmi influenzare da nessuno. Virzì non ci critica, anzi non critica proprio noi, propone uno spaccato di vita dell’italiano in generale. Sono passate veloci quelle quasi due ore di film e mai mi sono sentita insultata, anzi ho preso il tutto con una risata e mi sono sentita talmente lontana da quello che veniva raccontato che non ho potuto fare altro che sentirmi orgogliosa di essere brianzola.