Se volete vedere un film su un attacco alieno, su una contaminazione e una battaglia dove si combattono nemici mortali con armi super tecnologiche allora non guardate “Captive State” . Non ve lo dico per mettervi in guarda o sminuire, questo film, anzi tutto l’opposto. La pellicola è infatti ben altro, un racconto più viscerale, più complesso che mostra la ribellione alla dominazione aliena in un modo che va oltre la fruizione o la semplice comprensione di un film di fantascienza.
In un primo momento il film può lasciare una strana sensazione di non piacevole, è crudo, ma non veramente cruento, piuttosto sconvolge, mette all’erta lo spettatore fin dal primo secondo in cui entra in sala fino alla fine dove sarà sottoposto al colpo finale. Gran merito è senza ombra di dubbio della colonna sonora, a scatti, penetranti e con note di contaminazioni elettroniche che ben si sposa all’ambientazione a metà tra la tecnologia e il mondo in rovina. E’ un continuo subbuglio quello che viene creato, uno sconvolgimento dato dalle azioni dei protagonisti e ben supportato dai movimenti di macchina, così irregolari e improvvisi e che grazie al massiccio uso della steadycam per seguire i personaggi fornisce un’ambientazione ben caratterizzata.
La pellicola diretta da Rupert Wyatt è ambientata a Chicago, dieci anni dopo un’invasione aliena. I nuovi governatori sembrano apparentemente aver mantenuto la Terra come è sempre stata, in realtà hanno portato distruzione e hanno imposto il dominio totale sulla popolazioni tramite dispositivi impiantati sotto pelle, è grazie a questi supporti la polizia può mantenere un controllo totale e assoluto monitorando ogni movimento. Quando tutto sembra perduto si fa però largo l’azione di una Resistenza che in quanto tale vive nella clandestinità operando nell’ombra e cercando di riportare la situazione a come era un tempo. Al centro di questo scenario di dominazione aliena si susseguono i tentativi dei ribelli di soverchiare l’ordine generale e la vicenda di Gabriel interpretato da Ashton Sanders, il ragazzino di Moonlight. Grandi nomi vanno a completare il cast, si tratta di John Goodman e Vera Farmiga che interpretano rispettivamente un poliziotto e una professionista del piacere, due ruoli chiave all’interno della vicenda. Eppure i loro due personaggi sono molto distaccati da tutto il resto, la loro staticità si contrappone alla dinamicità dell’intera vicenda. A colpire è l’atteggiamento statuario di Goodman, il suo volto non lascia trasparire quasi nessuna emozione creando su di lui e sul suo operato un grande alone di mistero.
È proprio il mistero uno dei fili conduttori di questa pellicola, il regista sembra aver adottato la scelta di nascondere qualsiasi elemento che possa fornire una chiara e semplice chiave di interpretazione. Già il fatto che il film inizi ad invasione già avvenuta e consolidata è emblematico poiché in questo modo non si fornisce una panoramica su ciò che è accaduto prima. Quello che resta è un mondo frammentario in cui niente sembra essere al suo posto, a rimanere intatti sono solo piccoli particolari che racchiudono la chiave per comprendere tutto quanto. Ne è un esempio la suggestiva sequenza collocata ad inizio pellicola che mostra il lavoro del ragazzo protagonista, una specie di fabbrica dove uomini e donne hanno il compito di prelevare i dati di memoria da telefoni e da altri device e, dopo averli trasmessi alla centrale, disintegrare i supporti.
Sono quei brevi istanti del passato a mostrare cosa sia veramente successo, quanto di ciò che era prima sia cambiato e della netta impossibilità di tornare indietro perché tutto ormai è stato cancellato e ridotto in mille pezzi. Non si sa chi si combatte ed è forse proprio questo che li rende ancora più pericolosi, i personaggi utilizzano nomi generici, ma mai lo spettatore ha la possibilità di vedere esattamente come gli alieni siano fatti. Il buio li avvolge così come avvolge il loro modus operandi e la loro provenienza. Alla totale oscurità in cui sono inseriti i nemici si contrappone il modo diretto con cui è mostrata la Resistenza. Nonostante agisca nell’ombra, allo spettatore è ben chiaro cosa fa, sequenze fondamentali infatti mostrano i passaggi che partono dalla pianificazione dell’azione alla sua attuazione. È una specie di catena di montaggio dove ognuno pare avere un ruolo fondamentale, un vero e proprio impianto corale in cui tutti agiscono per il bene di tutti, nulla è scontato e si può danneggiare da un momento all’altro. Captive State risulta così un film di fantascienza, ma al contempo assai inusuale, per certi versi rivoluzionario, studiato, sviscerato, per alcuni versi anche in maniera maniacale. Quella messa in campo dal regista è una presa di distanza dalla norma, per scavare più a fondo di ciò caratterizza la vita dopo un’invasione aliena, sviscerarla fornendo una possibile via di fuga ma che si contrappone ben presto alla verità dei fatti. Per la maggior parte della pellicola regna la confusione che è in realtà il caos di un mondo in cui non si è sicuri più di niente, nemmeno della propria vita e in cui soltanto un gesto ben consapevole , ma totalmente scellerato può portare finalmente l’ordine.