Apparentemente burbero ma dai cuori d’oro, sarcastico oltre ogni previsione ma incline alla gentilezza, guerriero ma propenso al perdono. Come ogni Doctor che si rispetti, anche per colui che è stato Twelve – magistralmente interpretato da un grandioso Peter Capaldi – non ci sono abbastanza termini per descriverlo con completezza.
Per chi sta seguendo solo la programmazione italiana: attenzione, ci sono SPOILER della decima stagione e dell’ultimo episodio di Twelve.
E pensare che all’inizio non mi era nemmeno piaciuto più di tanto. La prima puntata – Deep Breath – mi aveva lasciato con un grossissimo “meh”, nonostante qua e là avessi visto qualche guizzo che mi aveva fatto saltare sulla sedia per l’entusiasmo. Da quel fenomenale “Door! Boring, not me!”, una sorta di programma anticipatorio di quello che sarebbe stato il suo stile, al commovente discorso finale ad una Clara parecchio restia ad accettare quella rigenerazione.
L’amore per Twelve è nato poco alla volta, pian piano, puntata dopo puntata, un po’ come i capelli di Capaldi, inizialmente corti e infine lasciati crescere sapientemente disordinati. Mi ha conquistata con il suo chiedersi “Am I a good man?”, in uno struggente riallaccio ai Doctor che furono Nine ed Eleven. Mi ha fatto riflettere il suo non sentirsi eroe nonostante quell’animo da guerriero che traspariva ogni volta che c’era da entrare in azione per aiutare gli altri. Sono stata sinceramente colpita dal suo aggrapparsi alla più umana e stupenda delle manifestazioni: “love is not an emotion, love is a promise!” urlata più a se stesso che a Clara e a Missy, quasi a ricordarsi – e a ricordarci – che i gesti di vero amore non sono solo emotività pura, ma richiedono impegno, dedizione e cura, come una promessa da mantenere.
Complice un’ottava stagione forse non eccellente, è stato dalla nona in poi che l’ho amato come non ho mai amato nessun altro Dottore prima di lui. Capace di entrare in scena a bordo di un carro armato e suonando la chitarra elettrica, dotato di occhiali da sole sonici e autoproclamatosi “Doctor Disco”, Twelve ha il record di entrate in scena non-convenzionali, che spesso hanno colto nel segno proprio per il loro essere così diverse dai predecessori.
Lì è stato definitivamente consacrato come “il Dottore del perdono” e nello splendido e toccante monologo contro la guerra di The Zygon Inversion c’era tutta la sofferenza di un Time Lord che ha visto troppe volte morire coloro che amava per permettere ad altri di provare la stessa sofferenza. Ma c’era anche tutto l’accorato appello a spezzare la catena dell’odio, quel dannato circolo vizioso in cui la violenza genera altra violenza e non c’è altro modo di farla terminare se non abbassare ogni arma, tranne quella del perdono. Complice un Moffat in stato di grazia, che ha saputo intrecciare avventure fantasiose con spunti di riflessione stupendamente attuali, Twelve ci ha mostrato un Dottore intento a lottare per i più deboli, un alieno che ha il massimo rispetto per la vita umana, un uomo dai due cuori che si affeziona alle proprie companion perché rappresentano quella parte buona di un genere umano troppo spesso dedito all’autodistruzione.
L’episodio Heaven Sent, poi, è stato da urlo. Un lungo, intensissimo, toccante monologo. Solo lui in scena e nessun altro, se non una sorta di simil-Dissennatore inquisitore, abbastanza inquietante nel suo scandire quello che era un vero e proprio tempo di tortura. Se ancora fosse stato necessario rimarcarlo, lì è emersa tutta la bravura attoriale di Capaldi, capace di reggere da solo ogni scena e capace di regalarci un Twleve prima deciso, poi spaventato, poi divorato dal dolore per la perdita di Clara ed infine lottatore con tutte le sue forze. Un caleidoscopio di emozioni in cui non si può rimanere impassibili.
Lo speciale Natalizio con River Song, un altro colpo al cuore di quel genio – troppo spesso incompreso – di Moffat. Il discorso di colei che è la moglie del Dottore è l’essenza di ciò che egli è: è un sole che illumina, è un cielo stellato che viene ammirato e non sai se ti restituisce lo sguardo, è qualcuno di incredibilmente grande che sembra quasi irraggiungibile. Molti hanno recepito quel piccolo monologo come la conferma che il Doctor non sia capace di amare nessuno, tantomeno River, l’evidenza dei fatti è la smentita ufficiale, perché lui è proprio lì, accanto a lei, presente quando meno te lo aspetti, pronto a restituirti il saluto con un “Hello, sweetie” quasi sussurrato e colmo di amorosa riconoscenza.
La decima stagione ci ha fatto sospirare e non poco, sin dai primi momenti: alzi la mano chi non avrebbe voluto teletrasportarsi all’istante in un’aula universitaria con Twelve come professore. Innumerevoli erano stati gli indizi lasciati, simili a briciole di Pollicino, per abituarci all’idea di doverlo salutare definitivamente. Ma altrettanto numerosi sono stati i piccoli monologhi, dei veri e propri gioiellini, un concentrato di morale che mai si era vista fino ad ora e che ha dato al personaggio una caratura morale che per me è una spanna al di sopra degli altri Dottori.
Infine, il momento di lasciarlo andare. L’eterno cerchio che deve seguire ogni appassionato di Doctor Who, eppure ogni volta è unica, ogni volta è diverso. Ognuno di noi è altrettanto unico, per questo ciascuno ha il proprio Dottore preferito, perché ognuno di essi tocca corde diverse di quel che siamo, ed è esattamente questo il bello. Spiegare a parole quali corde abbia toccato Twelve, per me, mi sembra un’impresa impossibile e sicuramente le parole di questo articolo non gli rendono abbastanza giustizia.
In questi giorni mi è capitato di leggere pseudo-recensioni negative su questa serie televisiva: partivano dalla affermata sessualità di alcuni dei personaggi per mettere in guardia adulti e ragazzi dall’intrattenersi davanti alla tv. Curioso come invece abbiano del tutto tralasciato – in evidente malafede e probabile disinformazione generale – i messaggi che il Dottore di Twelve ci ha consegnato in questi anni.
Ci ha insegnato che gli eroi non sono solo quelli dei libri e delle leggende popolari, ma possono esserlo tutti, se sanno vedere oltre le apparenze e lottare per proteggere i più deboli.
Ci ha insegnato che è giusto e legittimo provare dolore quando perdiamo chi amiamo, ma che non per questo dobbiamo chiudere il cuore a ciò che di buono ci offre la vita.
Ci ha insegnato che per perdonare qualcuno serve un amore senza confini, che non mette paletti se non quelli di una reale conversione, e che la speranza è un sentimento a cui non si può e non si deve resistere, se in gioco c’è il bene di chi amiamo.
Che l’evoluzione umana non si basa sulla tecnologia, ma da quanto sa prendersi cura dei soggetti più deboli; che morte e dolore fanno parte della vita umana e sono ciò che ci rendono così stupendamente preziosi e fragili. Che la pace è sempre la via da percorrere, anche andando controcorrente.
Che l’odio è sempre stupido, e l’amore è sempre saggio.
Addio, Twelve.
Ti lascio andare anch’io, con le lacrime agli occhi, ma con la speranza di rivederti nei gesti e nelle parole del Tredicesimo Dottore. Sarai lì, nascosto ma presente, pronto a tuffarti in nuove avventure e ad insegnarci ancora a diventare dei bravi esseri umani.
E grazie di tutto, immenso Peter Capaldi.