Ti ricordo in tanti modi, primo “mito” della mia adolescenza.
Eri il concentrato di tutto ciò che ammiravo e che ammiro ancora: coraggio, determinazione, caparbietà, talvolta associate a qualche pizzico di incoscienza, specie nei momenti in cui riuscivi a compiere sorpassi folli dove in teoria non si poteva sorpassare l’avversario. Oppure sotto la pioggia battente che metteva tutti ko, mentre tu ne uscivi esaltato e vittorioso.
L’uomo ha vinto sulla macchina, disse un giorno una giornalista durante il telegiornale. Avevi appena vinto il Gran Premio d’Europa, dominato da acquazzoni e da schiarite e non c’era stato pilota in pista che non avesse sofferto le pene dell’inferno per giungere al termine della gara. Forse le avevi patite anche tu, eppure mentre tutti arrancavano tu scivolavi fluido e perfetto, quasi tranquillo, un connubio di talento e passione che seppe vincere sulla tecnologia messa in difficoltà dai rovesci.
Perché proprio Ayrton Senna? Mi chiedevano spesso altre persone.
Perché lui ci mette il suo tutto, rispondevo, anche quando non vincevi.
Tutto il cuore e l’anima, tutto il talento, tutta la tecnica. Le gare tu non le correvi, le vivevi, nel bene e nel male, eri la dimostrazione vivente che ci si può dedicare alle proprie passioni ed ai propri sogni senza aver paura di essi.
Ma nessun mito è immune dall’essere mortale.
Me lo hai insegnato proprio tu, pensa.
Era il primo maggio di ventuno anni fa, quando il destino ebbe altro in serbo per te.
Ti vorrei ricordare in tanti modi, Ayrton, eppure nella mia mente l’immagine più potente di tutte, quella che ancora ho davanti agli occhi, non è un favoloso scatto alla partenza, né tantomeno il gradino più alto del podio, ma è invece il movimento lieve e quasi impercettibile del tuo addio alla vita: un casco giallo che lentamente si reclina, di lato, quasi poggiandosi dolcemente ad una spalla invisibile.
Valeu, Ayrton.
In qualsiasi cielo tu stia correndo.