“Non riesco a separare l’uomo dall’arte.” con queste parole Lucrecia Martel, presidentessa di giuria, si è scagliata contro J’accuse il nuovo film di Roman Polanski in concorso alla scorsa 76^ Mostra internazionale del cinema di Venezia. Un giudizio duro, che va molto oltre il pensiero critico e che ha rischiato di relegare la pellicola come prodotto preventivamente condannabile. A mio avviso però è necessario per una volta provare a separare i due aspetti, considerare il film per quello che è, senza le vicende personali del regista e tanto meno con le relative riserve.
J’Accuse è infatti non un semplice film, ma un piccolo capolavoro creato da un Polanski che 86 anni suonati sembra avere ancora molte cose da dire e ancora di più da insegnare. È una chiara ricostruzione storica di un fatto largamente conosciuto, l’affare Dreyfus ovvero l’ingiusta accusa per tradimento di Alfred Dreyfus, un rappresentate ebreo dell’esercito francese, un fatto che ha scatenato scompiglio nella Francia tra Ottocento e Novecento e che ha visto intervenire a favore dell’accusato alte personalità del mondo intellettuale come Emile Zola. Tale vicenda è stata presa e ripresa da libri e film talvolta ricadendo nell’esasperata ripetizione, ma Polanski fa qualcosa di eccezionale. Non sceglie la via più scontata di raccontare la vicenda dal punto di vista del protagonista e nemmeno da parte di Zola, ma opta per il cammino più tortuoso. Al fulcro della narrazione viene messo Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito e che ha visto Dreyfus come suo allievo. È proprio intorno a Picquart che ruota l’intera vicenda, un racconto appassionante che va a scavare nelle radici più profonde della corruzione dell’esercito francese e di tutti i suoi esponenti. La nomina del protagonista come capo dei servizi segreti è l’occasione per Polanski per trattare la vicenda proprio dall’interno passando in rassegna i modi, per noi ormai assurdi, ma che all’epoca erano considerati all’avanguardia e sufficienti a condannare un uomo per tradimento.
L’interpretazione di Jean Dujardin, a cui è affidato il ruolo di Geroges Picquart, è a dir poco eccezionale e sicuramente insieme a Joaquin Phoenix con Joker è la migliore vista a Venezia. Polanski costruisce per lui un personaggio a tutto tondo che agisce in ogni modo possibile, in primis lo fa con le parole ponendosi in contrasto con gli alti gradi dell’esercito che hanno condannato Dreyfus, poi passa ai fatti, una battaglia personale contro l’ingiustizia che lo vede anche impegnato fisicamente. È attraverso il personaggio interpretato dal premio Oscar per The Artist che riusciamo poco alla volta a fare chiarezza sulla vicenda e a scoprirne le trame più assurde e nascoste. A Louis Garrel è affidato il ruolo di Dreyfus, personaggio che dà avvio all’intera vicenda, ma del quale viene data un’immagine del tutto particolare. Non è il solito povero indifeso, bersaglio di accuse ingiuste e discriminazioni, è un personaggio più complicato che agli occhi del pubblico pare quasi antipatico. Fin dalla prima immagine la sua fermezza e il suo sguardo fiero cozzano con le simpatie da rivolgere al personaggio, eppure nonostante la sua sfrontatezza, il suo sguardo sfacciato e superiore non si può fare a meno, come fa lo stesso Picquart, di prendere le sue difese.
Ancora una volta Polanski si cimenta con un argomento complicato e cavalca l’onda dello scandalo con una vicenda che ha molto del personale. Il lavoro fatto con J’accuse è eccezionale, fin dalla prima inquadratura si ha la percezione che quello che a cui ci si approccia non sarà un semplice lavoro di ricostruzione ma una completa esperienza immersiva. Nulla è lasciato al caso, le armi, le uniformi, ma soprattutto i minuscoli particolari fortemente osannati dai sevizi segreti e sui quali si fonda l’accusa. A colpire maggiormente è però la cura riservata alle ambientazioni, vi è all’interno della pellicola una chiara alternanza tra interno ed esterno con un chiaro intento poetico. Gli esterni quelli della libertà e della spensieratezza che aprono il film cozzano fortemente contro quelli chiusi, nascosti e segreti delle istituzioni, inamovibili nelle loro scelte, seppur palesemente sbagliate. È proprio su questi due mondi che giocano gli intenti di Polanski e sul quale vi è la netta rappresentazione di una Francia divisa in due: quella rivoluzionaria e aperta al cambiamento e quella totalitaria e paternalistica che sembra riuscire a prendere il sopravvento. È chiara la riflessione da parte del regista sulla propria vita, un documento di esplicita accusa per le ingiustizie moderne e del passato, così come è ben visibile uno spaccato del mondo di oggi. Un mondo in cui viene lasciato sempre meno spazio per chi lotta per la libertà mentre sulla scena dominano i pochi potenti che, seduti ad un tavolo in una stanza chiusa, discutono per le sorti dell’universo.