Il lungometraggio d’animazione giapponese “La collina dei papaveri”, diretto da Goro Miyazaki nel 2011, si palesa quasi come una lettera scritta da un mittente, che intende narrare una storia semplice, servendosi di una bella grafia. Un po’ vecchio stampo. Un avvicendarsi di azioni che si ripetono. Di quotidianità, che sfociano in una routine per nulla spiacevole.
Nella Yokohama del 1963 la sedicenne Umi vive con i fratelli e la nonna in un edificio dedotto da un ex ospedale, ubicato sulla “collina dei papaveri”. La madre è sovente assente per lavoro ed il padre è morto durante la guerra di Corea. Si assiste ad una piacevole commemorazione di quest’ultimo, ad una rievocazione non solo attraverso fotografie, ma soprattutto tramite lo struggente stratagemma onirico: il sogno come mezzo visionario, atto al richiamo di ricordi emozionali.
La ragazza diviene copista in un club letterario di cui fa parte anche il diciasettenne Shun, responsabile della pubblicazione del giornalino scolastico. Tra i due si instaura un forte legame ostacolato da una presunta vicenda genealogica che necessita o meglio comporta la ricostruzione di rapporti parentali. Interessante è a tal proposito il tono pacato e mai allarmistico con cui Miyazaki scava nei meandri delle logiche sentimentali ed in particolar modo nelle difficoltà concernenti il distacco in caso di coinvolgimento emotivo.
L’elemento culinario si inserisce all’interno della routine sopra citata e non abbellisce la scenografia: ne è una parte costituente. Il cibo che la protagonista prepara per la famiglia appare, con la sua grafica genuina, animato a tal punto da sembrare commestibile! Ancor più significativa è la presenza dell’elemento naturale: vasti spazi verdi, che sprigionano un’aria contaminata da principi, da contestazioni o assemblee studentesche che si nutrono di ideali e di quella speranza che fa tanto bene al cuore. Il dibattito, nello specifico, ruota attorno alla possibilità di salvare o demolire il “Quartier Latin”, struttura atta ad ospitare i club scolastici.
Ad emergere, all’interno di una trama lineare è uno spaccato sociale che, in attesa dei giochi della XVIII Olimpiade di Tokio, riflette un Giappone intento a ricucire le ferite del secondo conflitto mondiale.
“Demolire le cose vecchie non è forse lo stesso che buttare via le memorie del passato? Non significa forse ignorare le memorie delle persone che hanno vissuto e sono morte? Per voi che non fate che buttarvi sulle novità, senza voltarvi e guardare la storia può forse esserci un futuro? Voi che non ci state ad ascoltare l’opinione della minoranza non avete a che parlare di democrazia”. (Shun)
Si percepisce il tocco delicato proprio della famiglia Miyazaki, non a caso il padre del regista, Hayao, è co-sceneggiatore della pellicola insieme a Keiko Niwa. Goro firma la sua seconda regia cinque anni dopo “I Racconti di Terramare” (2006), entrambi prodotti dallo studio Ghibli, sofferente per la recente scomparsa di uno dei suoi fondatori, Isao Takahata, autore di opere quali “Una tomba per le lucciole” e “La storia della principessa splendente”.