Complice la pubblicazione dell’intera discografia di Peter Gabriel su Spotify, ho avuto modo di riascoltare Up, quello che si può definire il suo ultimo disco. Prodotto da Gabriel stesso e da Tchad Blake mago della registrazione del suono binaurale. Si capisce già da subito che questo disco è una creatura strana, viva, che riflette sull’uomo, un concept sulla vita e sulla morte sia in prima persona, sia in terza persona. Capirete successivamente cosa intendo dire. Abbiate pazienza perché sarà un post lungo, ma è proprio impossibile dire meno su questo disco.
Darkness si apre con un suono lieve ed subito dopo esplode. E’ una canzone sulla paura. Sulle paure che ci impediscono di vivere, le paure che ci accompagnano tutti i giorni sin da quando apriamo gli occhi fino al sonno. Siamo spaventati da quello che conosciamo ma alla fine, se le affrontiamo, se le guardiamo in faccia…”and the monster I was so afraid of/ lies curled up on the floor just like a baby boy“. Questa canzone mostra i due lati di Peter Gabriel: quello luciferino, quello più oscuro e cattivo e quello più dolce, suadente. Un saliscendi musicale. Occhio che il mostro è dietro l’angolo e ride. Nell’apertura di Growing up c’è una descrizione molto vivida della nascita. Siamo al mondo. Crescere e cercare un posto dove vivere nel mondo. Il pezzo è entusiasmante e energico, fa ballare persino i più piantati, e sembra quasi seguire il ritmo del cuore, un ritmo vitale per ognuno di noi. L’altra caratteristica di questo disco è la stratificazione dei suoni, una stratificazione finalmente al servizio dei vari brani. Non bastano due orecchie per sentirlo e ogni volta, ad ogni ascolto esce fuori qualcosa, qualcosa di diverso.
Sky Blue è una delle tre perle di quest’opera. Questo pezzo è la viva dimostrazione del genio e della creatività di Peter Gabriel. E’ costruito come se fosse un blues dal sapore antico impreziosito dai cori dei Blind Boys of Alabama. E’ un moto del cuore, è anima. E’ la passione fatta musica. La seconda perla è No way out. Chi saprebbe fondere così felicemente ritmica dall’incedere jazz, pur non perdendo di vista la tradizionale forma canzone, con alcuni tratti tipici del pop e con una tematica così forte e potente come quella della morte senza risultare stucchevoli o eccessivamente retorici? Succede qualcosa, un incidente e il primo pensiero “Oh God let it not be you” Dio fa che non sia tu. Le immagini qui usate sono composte e delicate “The colour in your shirt is darkening, Against the paleness of your skin. I remember how you held the goldfish, Swimming around in a plastic bag” C’è l’evento reale e il ricordo familiare. Improvvisamente si apre, esplode letteralmente in un grido. Il finale lascia all’immaginazione dell’ascoltatore il tentativo di comprendere cos’è accaduto. La musica si ferma e si riprende, così come il tempo in senso generale. E’ stato solo un’ora fa. Era tutto così diverso. E sembra che nulla sia cambiato, che tutto sia rimasto come prima. Ora non c’è più nessuno a casa. Ho trovato pochi artisti capaci di ritrarre il tema del lutto in maniera così delicata. I grieve. Sono in lutto. Il pezzo si apre con un incedere lento, mesto, in punta di piedi, per poi trovare la strada verso un ritmo più forte, più veloce. La vita scorre ma è detto con astio, con odio. Io sono in lutto e il resto continua ad andare avanti, come se niente fosse. The Barry William Show ha avuto il potere di dividere i fan. C’è chi la ama e chi invece non la apprezza molto. Personalmente vedo in questa canzone un trait d’union con i villain di cui ha cantato sia con i Genesis che nella carriera da solista. Barry William nella fantasia di Peter Gabriel è il conduttore di uno di quei programmi in cui la gente espone al pubblico ludibrio la propria grettezza e squallore. Più efferati sono i racconti e più si fa audience. Devo constatare che è rimasta ancora oggi di devastante attualità. L’incedere del pezzo è costruito come una sorta di marcetta tipica dei circhi. Forse non è casuale, visto che in un certo senso è di questo che si parla. Però qui le peggiori bestie sono gli esseri umani. Alla fine però l’uomo non è un isola e Barry William verrà sommerso dalla grettezza umana, annegherà e non ce la farà più ad andare avanti.
Una considerazione a parte sul video diretto da Sean Penn: se fosse uscito in questi tempi di movimenti pseudo femministi, pseudo perché alla fine non sono davvero tali ma si è solo creato un clima di caccia alle streghe ipocrita che poco si cura delle reali istanze, dicevo se fosse uscito adesso Peter Gabriel sarebbe stato massacrato a dir poco. In realtà se si considera tutto il contesto e il ruolo che l’autore stesso si è ritagliato nel pezzo – ossia una sorta di showman – che vuole essere ironico e, allo stesso tempo, di critica feroce verso certa televisione, si evince che è chiaro che quella sequenza è un gioco, una voluta provocazione. Purtroppo però non posso fare a meno di pensarvi in questo clima dove si fanno i processi alle intenzioni, o alle presunte tali, senza vedere la realtà.
Un ticchettio di orologio in sottofondo che annuncia l’attacco di My head sounds like that. E’ un pezzo dall’andamento ondivago e sbilenco. Sembra richiamare alla mente certe sonorità tipiche beatlesiane. Il metallo della chiave che apre la porta si fa sentire e il suono dei piedi che raschiano sul tappeto. L’olio nell’insalatiera, il gatto che esce… tutti questi rumori vengono amplificati a dismisura quando si è preda di un violentissimo attacco di mal di testa. Nella mia testa questi suoni rimbombano. In questi momenti persino i pensieri diventano dolorosi. C’è una frase nella canzone che mi fa leggere in un altra chiave il quartetto No way/Grieve/Barry William/My head: i momenti vanno e vengono come l’acqua. Provo ad afferrarli ma mi sgusciano via. La mia teoria: Gabriel sta riflettendo sulla vita e sulla morte e questi pezzi non sono che delle chiavi di rielaborazione. C’è il fatto “No way out”, il decesso. Barry e My head non sono altro che il dopo. Subito dopo la morte di una persona cara c’è come una specie di circo in cui rivedi gente, di cui normalmente non ti importerebbe molto, venire da te e farti le condoglianze. My head invece è il fatto privato. Finito il circo, lasciato finalmente solo a te stesso e al proprio dolore, c’è la totale confusione dentro. E ci si rende conto che è tutto effimero, che può svanire da un momento all’altro. More than this è un pezzo dall’incedere pesante, dalla ritmica in progressione. Dal vivo ha procurato non pochi problemi all’autore. Ancora si riflette sulla vita e sulla morte e si pensa: “ci deve essere qualcosa di più di questo.” Qui viene preannunciata la preoccupazione dell’autore di lasciare un segno duraturo nella vita delle persone.
Viene pian piano introdotto il tema portante di Signal to noise. E’ il personale tributo che Peter Gabriel offre alla memoria di Nusrat Fateh Ali Khan, cantore qwali scomparso ahinoi nel 1997. Ma anche il proprio testamento artistico. Il compito di ognuno di noi è di riuscire a pulire il suono della nostra vita tanto da rompere il rumore derivato dalla morte. You know that’s it. Receive and trasmit. Non bisogna essere artisti per questo. Dobbiamo solo essere aperti. Lasceremo inevitabilmente il nostro segno. E’ quello il nostro scopo. Musicalmente è immensa. Non la posso descrivere. Bisogna solo ascoltarla. Ve la regalo con questo post. E si arriva a The drop. Brano costruito solo da voce e piano. La voce di Gabriel qui è a tratti triste, a tratti mesmerica, a tratti dolcissima. The drop è la caduta, ed è un modo gergale per definire la morte delle persone. E’ un brano dal testo raffinatissimo, ma in tutto il disco la scrittura è a livelli poetici davvero elevati. Il viaggio della nostra intera esistenza resa attraverso la metafora del volo in aereo. Le riflessioni sulla vita e, soprattutto, sulla morte sono rese attraverso l’osservazione del panorama da un oblò. Le luci della città come le sinapsi del cervello umano e la caduta con il conseguente svanire delle sagome umane. One by one, They’re going out, You watch them dim, One by one, You watch them fall, And wonder where they’re falling to…
Peter Gabriel chiude in questo modo il disco, portandoci a chiedere se esiste un aldilà, in quale luogo le nostre anime continueranno a viaggiare dopo aver abbandonato le spoglie mortali. Sceglie scientemente di non dare una soluzione a questa domanda che tutti prima o poi siamo portati a farci.
Sono passati la bellezza di 17 anni da quando questo disco è stato pubblicato. Successivamente Peter Gabriel è stato coinvolto in altri progetti ma si può dire che Up rimanga, a tutt’oggi, l’ultimo disco di canzoni inedite a suo nome.