Care fans e cari fans di David Lynch sappiamo che, come noi, siete abituati alle incredibili evoluzioni della mente del Sommo David, stavolta però il nostro si è superato quindi abbiamo dovuto contattare il suo spacciatore per poterci capire qualcosa e scrivere una recensione decente.
A quanto pare servono una dose di mescalina purissima, oppiacei vari e lsd, il tutto mescolato a due litri di Montepulciano e mi raccomando che sia doc, se no non funge.
Ok battute a parte il ritorno di Twin Peaks è sicuramente uno degli eventi dell’anno e ha regalato diversi episodi, tra cui il tre e l’otto che fanno effettivamente pensare all’uso smodato di qualche droga e considerando l’auto-ironia del buon David Lynch non crediamo se le prenderà per quello che stiamo dicendo.
Ammesso e non concesso che questa recensione (?) arrivi ai suoi occhi.
Cosa di cui dubitiamo fortemente.
Da qui in avanti saranno presenti diversi SPOILER, sempre che riusciremo a scrivere qualcosa di sensato.
La prima certezza che ci ha regalato questa terza stagione di Twin Peaks è che il Dale Cooper uscito dalla Loggia Nera sia quello oscuro mentre l’altro, l’originale, è finito in una sorta di dimensione parallela nei panni dell’impiegato Dougie Jones, legato ad una moglie un po’ ansiosa e sopra le righe, interpretata da una bravissima Naomi Watts.
C’è molto da dire sul Dale oscuro. E’ un vero e proprio catalizzatore del male. Sembra avere accesso agli scheletri dentro l’armadio di chiunque e, soprattutto, è in grado di usare la tecnologia a suo vantaggio. Emblematica la scena di come riesce a “comprarsi” la fuga da un carcere dell’FBI in cui era stato rinchiuso. Si circonda di gente poco raccomandabile e, anche all’aspetto sembra molto sporco.
Dougie, invece, pare molto pulito, molto ingenuo e soprattutto molto stupido perché non riesce ad esprimersi bene, facendo una sorta di eco quando gli altri parlano.
Tuttavia vi sono diversi indizi che fanno pensare come Dale sia molto lucido, semplicemente non è in grado di esprimersi in maniera consona e deve usare un linguaggio diverso. Linguaggio che solo la moglie, il figlio (che peraltro ha capito che non si tratta del suo vero padre) e il suo datore di lavoro paiono comprendere.
Sappiamo che Dougie è minacciato da varie persone, difficile capire quanto siano effettivamente legate al Dale oscuro ma di sicuro fanno il suo gioco.
Ah il suo Hellooo è già diventato di culto in rete e non solo.
Kyle MacLachlan è strepitoso in entrambi i ruoli. Va detto e ripetuto.
Un’altra cosa di cui abbiamo la certezza è che Laura Palmer (anche Sheryl Lee è sempre magnifica) è la prescelta, la messia della serie.
E’ attorno a lei che gira tutto, solo lei può salvare Dale e Twin Peaks? Chissà ma crediamo che la faccenda sia più complessa anche se il conflitto manicheo è parte integrante di questa serie da sempre.
Il fatto che Laura, una donna dal passato un po’ burrascoso, abbia questo ruolo così alto, diciamo quasi divino, ha fatto storcere il naso a qualche bigotto (deve esserci un raduno di maschilisti idioti in questo periodo) e a loro noi vorremmo rispondere in un certo modo, solo che, come direbbe Lucy Van Pelt, non ci vengono parole abbastanza brutte per insultarli.
Tra le varie cose di questa terza stagione ve n’è soltanto una che ci ha abbastanza irritato e di cui faremmo volentieri a meno anche perché non ne vediamo l’utilità nella trama.
Ci riferiamo a Steven e Richard, quest’ultimo nipote di Benjamin, mentre il primo è il simpatico quasi genero di Bobby (a proposito complimenti: la vecchiaia gli ha sviluppato sia l’avvenenza che i neuroni) e Shelly, in quanto compagno della loro figlia Becky, che poraccia ha ereditato la demenza giovanile dei suddetti, solo moltiplicata al cubo e spiace vedere Amanda Seyfried dover interpretare una tale cretina.
Oltretutto nelle vecchie stagioni di Twin Peaks avevamo già toccato con mano la banalità del male diverso da quello metafisico della Black Lodge, con Leo Johnson: avevamo proprio così tanto bisogno che il concetto venisse ribadito con Steven e Richard? Sinceramente no e alcune scene sono state davvero agghiaccianti, tipo quella del bimbo investito.
A proposito di demenza, è sempre un piacere vedere la coppia di intellettuali Andy e Lucy, che, ok, abbiamo capito che giocano a fare gli idioti e poi nel momento clou fanno capire che non lo sono, ma ciò non toglie che un bastone in testa ad entrambi lo spezzeremo comunque. Di rovere che fa più male.
Notevole anche il loro figlio, palese clone di Spadino, il nipote di Fonzie in Happy Days, solo ancora più idiota.
Gustosa l’apparizione del papà di Donna, che ci rivela ciò già sapevamo riguardo al Dale uscito dalla loggia, il tutto facendo una leggera colazione a base di due trote, due uova strapazzate e un muffin. Per la cronaca il dottor Willi Hayward era interpretato da Warren Frost, papà di Mark, coautore con Lynch della serie, qui alla sua ultima apparizione.
Fondamentalmente una cosa non è mutata in questi anni per Twin Peaks: la commistione tra reale e sovrannaturale. Con un’avvertenza: non si può usare la razionalità per cercare di spiegare gli eventi e soprattutto individuare cosa sta succedendo. E’ fin troppo chiaro nelle sequenze all’interno della Black Lodge oppure dai messaggi apparentemente criptici della Signora Ceppo. Badate bene abbiamo detto apparentemente. In realtà le sue conversazioni con l’agente Hawk hanno una loro logica alla luce di ciò che sta per abbattersi di nuovo sulla cittadina. Le sue parole non sono da intendersi in maniera letterale. Lei ha guidato l’indiano alla lettera lasciata da Annie in cui si parlava esattamente di ciò che sarebbe accaduto oggi con una precisione spaventosa. Ed è sempre lei a dire: “Laura è la prescelta.” Altra prova di questo miscuglio è il caso del Maggiore Briggs, apparentemente scomparso senza lasciare traccia e ricomparso cadavere senza testa in un obitorio. Perché citiamo questo episodio? Semplice: anche qui, come nel caso di Annie, c’è un chiaro caso di preveggenza. Prima di scomparire aveva lasciato un messaggio alla povera moglie, dicendole che qualora lo sceriffo Truman (il fratello di Harry, anche lui è una brava persona come quest’ultimo. Robert Forster è bravissimo a non farne un clone), suo figlio e un altro collega, fossero arrivati da lei a chiedere notizie, lei avrebbe dovuto consegnare loro un oggetto.
E qui c’è un altro tema caro a Lynch nella serie ossia il saper guardare oltre l’apparenza. All’inizio della serie tutti quanti abbiamo pensato che il maggiore trattasse il figlio con sufficienza, che lo ritenesse un buono a nulla e basta. Invece abbiamo la riprova che niente di tutto questo era vero. Anzi. Il maggiore sapeva che il figlio sarebbe diventato un agente di polizia e assistiamo anche alla dimostrazione che il maggiore e il piccolo avevano un bellissimo rapporto sancito anche dalla creazione di un codice, di tutto un mondo immaginifico, un linguaggio che verrà usato dal padre per dare indicazioni al figlio di cosa deve essere fatto nel futuro.
Possiamo dire di esserci commosse fino nel profondo per questa vicenda. Il maggiore Briggs era un uomo severo e giusto, che sapeva aprire il suo cuore nei momenti che contavano e Bobbie lo comprende totalmente ora, da adulto, anche se ha sempre conservato nell’animo i momenti felici con lui.
Bravi Lynch e Frost a demolire l’idea del militare duro, mostrandoci un altro volto di questa difficile professione.
Non è un caso che il maggiore fosse uno dei più cari amici di Dale.
Vorremmo aggiungere una cosa.
Attendiamo con ansia il ritorno di Audrey Horne, interpretata dalla magnifica Sherilyn Fenn: il suo personaggio è forse la donna più complessa e riuscita della serie e sappiamo che è lei la vera anima gemella dell’agente Cooper. Solo due persone così complicate possono capirsi tra di loro. Non c’è spazio per terzi incomodi imposti dall’esterno ai due poveri autori negli anni 90.
A proposito di Dale, è stata una grande sorpresa scoprire che Diane esistesse davvero, credevamo fosse una sorta di amica immaginaria del nostro agente e invece lei esiste e ora collabora con l’ex direttore dell’Fbi Gordon Cole, per chi non lo sapesse interpretato da Lynch che dimostra veramente una grande ironia perché insomma Gordon è uno spostato.
Al loro fianco vi sono la giovane agente Tammy Preston, la quale lentamente inizierà ad apprezzare gli insoliti metodi di Gordon e l’agente veterano Albert Rosenfield, il compianto Miguel Ferrer, che ha tirato fuori, di fronte alla serie di omicidi, la migliore battuta di questa serie:
“E nella seconda stagione cosa succede?”
Talmente bella e spontanea da far pensare che fosse un’idea dello stesso Ferrer.
Il nostro Albert, tra un’indagine e l’altra, riuscirà ad ad imbastire una tenera relazione con l’insolita anatomopatologa Costance Talbot, la quale, grazie alla sua intelligenza sopraffina, sta riuscendo a ricostruire i corpi delle povere vittime del Cooper oscuro.
Ci stavamo dimenticando del meraviglioso cameo di David Duchovny, il quale è tornato nei panni della mitica Denise Byron, proprio per aiutare Gordon e i suoi a districare la difficile matassa sul Dale oscuro.
Un cameo di un solo episodio e di pochi minuti ma davvero epico.
E ora eccoci alla parte più complicata.
La nascita di Bob.
Se Laura, il Gigante (una sorta di angelo custode) e Dale/Dougie (il primo apostolo?) sono il Bene, Bob è il Male, non c’è dubbio su questo e Lynch e Frost decidono di farlo nascere durante un esperimento atomico, cosa che fa pensare ad una critica feroce all’uso sbagliato della tecnologia e dei terrificanti esperimenti atomici, che fecero danni incalcolabili.
Bob, dunque, non nasce dall’alto a differenza dei tre sopracitati, nasce dal basso, dalla parte più grezza e becera dell’umanità, segno che non è il divino a creare il male, messaggio molto teologico ed esegetico, ma l’uomo, che non sapendo usare bene il proprio libero arbitrio, crea degli artifizi orrendi.
L’episodio 8, quello dove questo ci viene mostrato, è a tutti gli effetti, l’oggetto più strano che troverete nel mondo seriale. Si tratta dell’arte di Lynch lasciata allo stato puro, senza ostacoli, senza nessuna imposizione dall’alto. A tratti è stato irritante e credo che sia stato fatto apposta per simboleggiare lo strappo, l’orrore creato con l’esplosione della bomba atomica. Il tempo stesso sembra fermarsi e prendere una piega più sinistra e veniamo catapultati in una dimensione altra – la White Lodge forse? – in cui assistiamo anche alla nascita di Laura come spirito prescelto, avvolto in piena luce e mandato in missione sulla Terra. Ma Lynch non ci lascia il tempo di godere di questo briciolo di luminosità che subito dopo veniamo catapultati in una cittadina tetra in cui loschi figuri arrivano e uccidono. Mettono mano alla radio per trasmettere un enigmatico messaggio.
Non solo è nato Bob ma il seme del male è stato ben impiantato e darà dei frutti che, forse, vedremo solo nei prossimi episodi.
Per non farci mancare niente Lynch e Frost hanno trasformato il mitico dottor Jacoby nella rappresentazione dei complottari, rendendolo ancora più fuso di quanto già non fosse nelle precedenti stagioni. Trasmette i suoi deliri tramite un canale radio online e l’unico spettatore che ci viene mostrato è Nadine, la quale, come è noto, è più svitata di Gordon e, di lei, peraltro, non sappiamo ancora nulla di come abbia passato questi ultimi 20 e passa anni.
Un piccolo accenno va fatto al papà di Audrey: Benjamin dimostra che la redenzione vista venti anni fa non era un fuoco di paglia ed è veramente un uomo diverso, preoccupato per il fratello e la cognata, anche a causa del nipote demente di cui sopra.
Immaginiamo che ci sia ancora molto da raccontare nei rimanenti episodi di questa stagione. La carne al fuoco è molta e, pur confidando nelle capacità di Lynch e Frost, abbiamo un leggero timore che possa non riuscire a raccontare ciò che ha in mente.
L’impressione che ne abbiamo derivato da questi primi dieci episodi è quello di un Inland Empire dilatato e amplificato, una narrazione che non segue i normali canoni – anche se a volte sembra farlo ma è solo pura apparenza – ma una sorta di flusso sensoriale che non può far altro che colpire lo spettatore e portarlo in una dimensione altra. Come lo stesso autore ha detto in un’intervista: il suo più grande desiderio è che lo spettatore di Twin Peaks possa far proprie ciò che sta guardando e interpretarlo alla luce del proprio vissuto personale e trarne le conclusioni che più gli sembrano congeniali. Ed è un concetto che lo avvicina molto alla meditazione per cui la base è uguale ma l’esperienza è diversa per ognuno di noi. Lynch, pratico di questa tecnica, lo sa molto bene e sembra quasi averne trasportato le visioni tipiche sullo schermo regalandoci qualcosa di conturbante, irritante a volte, talvolta apparentemente incomprensibile.
Questo processo richiede pazienza e una profonda capacità di infrangere le barriere dell’ovvio. Se vi si riesce, forse, si arriverà a comprendere il suo linguaggio.
Recensione redatto da
Silvia Azzaroli e Simona Ingrassia