Avevo 11 anni quando iniziai a seguire Julio Velasco e la sua generazioni di fenomeni. Lorenzo Bernardi, Andrea Zorzi, Luca Cantagalli, Andrea Gardini, Andrea Lucchetta, Andrea Giani, Ferdinando De Giorgi, Paolo Toffoli, Samuele Papi, Marco Bracci, Fabio Vullo, Pasquale Gravina, Andrea Anastasi, Marco Meoni.
Lì scoprì insieme al fratellino Marco e insieme, per anni, abbiamo gioito e pianto con loro.
Sì mi ricordo ancora tutti i nomi, anche se, alcuni di loro non sempre hanno avuto il giusto spazio in nazionale ma questa è un’altra storia.
Gioì con loro quando vidi questi ragazzi giovanissimi (alcuni di loro non avevano neanche 19 anni) trionfare agli Europei del 1989 e ai Mondiali del 1990, mentre passavo dalle medie al liceo. Mi pareva di toccare il cielo con loro perché la pallavolo è sempre stato uno dei miei sport preferiti in quanto conta più il gruppo che il singolo, ognuno, anche il più grande, deve imparare a mettersi al servizio dei suoi compagni di squadra, le inimicizie devono sparire.
Ricordo un libro che lessi in quel periodo “Sei ragazze sotto Rete” di Annamaria Ferretti, che raccontava della prima trasferta estera di 6 ragazze e dei loro allenatori, di come quel momento, seppur fatto di un torneo minore, avrebbe insegnato loro a crescere e maturare, facendole diventare ancora più gruppo di prima.
Ecco leggendo di queste ragazze io pensavo a loro, ai miei eroi veri, che vidi crollare la prima volta nel 1992. Qualunque altro allenatore avrebbe accampato scuse, dato la colpa agli avversari o scaricato tutta la colpa sui propri giocatori, invece Julio Velasco si prese la colpa insieme ai suoi: “Abbiamo fallito insieme.” Ricordo anche la paura che se ne andasse nell’autunno 1992, fu un lungo autunno, avevo temuto davvero che se ne andasse e aveva anche i suoi motivi per farlo perché se da una parte non si era trovato nessuna giustificazione per quel fallimento cocente, dall’altra voleva che i suoi ragazzi fossero tutelati. Non ci teneva a rimanere a mezzo servizio, non ci teneva a rimanere senza ottenere le giuste rivendicazioni. Chiese e alla fine ottenne, sapendo bene di dover vincere tutto. Di nuovo. Europei 1993 e 1995, World League 1992, 1993, 1994 e 1995, Mondiali 1994, Coppa del Mondo 1995 e l’argento più cocente di tutta quell’era, il più doloroso.
Prima di parlare di questo, tuttavia, occorre ricordare ciò che dissero giustamente diversi ragazzi dopo la vittoria del mondiale 1994, a cominciare da Cantagalli, Zorzi e Bernardi:
“Potevamo distruggere tutto dopo Barcellona, vero? Invece siamo qui, abbiamo deciso di tornare a vincere, insieme, di rialzarci insieme.” perché come disse anche Velasco durante la conferenza stampa post vittoria: “Abbiamo vinto questo mondiale perché abbiamo perso a Barcellona, perché abbiamo saputo perdere, perché non ci siamo aggrappati allo scoglio delle recriminazioni.”
Già saper perdere, senza recriminare, senza accusare nessuno, sapersi rialzare, prendersi le proprie responsabilità e tornare più forti di prima. Diventando leggenda. Messaggio attualissimo perché non tutti possiamo diventare leggende come loro ma possiamo tutti rialzarci dopo i dolori della vita, piangere, arrabbiarsi e poi rialzarsi.
E venendo all’argento più doloroso, quello di Atlanta 1996. Sono passati 23 anni ma riesco ancora a vederli piangere, insieme, come sempre, per quel doloroso argento, ingiusto come la sorte, oro perso per due punti.
Italia che incuteva talmente tanto timore ai suoi avversari da far passare una notte insonne al povero allenatore dell’Olanda, Alberda, prima della finale degli Europei 1995.
Da notare che mezza dirigenza italiano ripeteva al povero allenatore insonne: “Lo sai che domani perdi?” Nessuno ebbe il coraggio di tradurre il pronostico poi realizzatosi.
Il giorno dopo il giornalista Rai chiese: “L’allenatore dell’Olanda vagava per il palazzetto, non riusciva a dormire e lei signor Velasco?” e lui con un sorriso sardonico: “Io dormivo benissimo.”
Eppure c’era una cosa bellissima che Velasco, il prof di filosofia di sinistra, (feroce oppositore dei regimi sudamericani) disse proprio dopo gli Europei del 1995, una cosa che mi è rimasta nel cuore, forse più di quella sudatissima e meritata vittoria contro l’eterna rivale l’Olanda:
“Da noi in Argentina c’è un detto. Nessuno ci toglierà quello che abbiamo ballato. Significa che nessuno ci può levare i nostri ricordi, ciò che abbiamo vissuto. E anche se perdessimo tutti i set 15-0 alle prossimi olimpiadi di Atlanta non cambierebbe un’oncia della stima che ho per questi ragazzi. Nessuno ci leverà quello che abbiamo vinto. Nessuno ci leverà quello che abbiamo ballato.”
Il messaggio è di un’attualità pazzesca, anche questo sì, perché possiamo non aver ottenuto tutto quello che volevamo, tutto quello che sognavamo ma dobbiamo e possiamo essere felici di ciò che abbiamo potuto avere. Non si deve perdere la stima, anche in se stessi, per un errore, si deve ricordare ciò che si è. Siamo tutti umani e fallibili, anche la generazione di fenomeni e il suo allenatore Julio Velasco.
E a proposito di messaggi attuali, non scorderò come Velasco, dopo la vittoria del primo mondiale, nel 1990, disse: “Dedico questa vittoria alla mia città, a Modena.” a Modena, la città che gli aveva portato tanto fortuna e a cui aveva regalato tanti successi. E dove ha voluto chiudere la carriera.
Perché non dimenticherò mai il momento della loro sconfitta più dolorosa ma non dimenticherà mai nemmeno le loro vittorie esaltanti, anche il loro addio al Forum di Assago, stracolmo di gente grata sempre e comunque.
E dunque grazie sempre e comunque a Julio Velasco, che l’altro ieri ha detto addio alla panchina per sempre.
Ci sono ancora i tuoi eredi in giro, Bernardi (il giocatore del secolo scorso) in primis e stanno dimostrando di saper seguire bene le vie del Maestro, così come le ragazze dell’Italia femminile.
“Noi non siamo un dream team, siamo una squadra che ha un sogno”.
“Dodici leoni, noi abbiamo dodici leoni”
“Il presidente della federazione internazionale di volley se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Più si ingegna a far perdere l’Italia e più l’Italia vince”
“Voglio gli occhi da tigre”
“L’argento di una squadra d’oro.”