Nome: Zero Day
Ideatori: Eric Newman,
Noah Oppenheim e Michael Schmidt
Regia: Lesli Linka Glatter
Produzione: Netflix
Cast: Robert De Niro, Lizzy Chaplan,
Angela Bassett, Jesse Plemons, Connie Britton, Dan Stevens,
Joan Allen, Clark Gregg, Mozhan Marnò, Matthew Modine,
Gaby Hoffman, McKinley Belcher III, Hannah Gross.
Anno: Gennaio 2025
Recensione di Silvia Azzaroli e Simona Ingrassia
Netflix nella tanta ehm roba che produce ogni anno, ci regala questo piccolo gioiellino, che sembra uscito dalla cronaca attuale se non fosse per alcune piccole differenze.
Difficile definirla con un genere e tutto sommato è meglio così.
ATTENZIONE SPOILER!
La storia, in apparenza semplice, diventa sempre più contorta a mano a mano che si prosegue, portando le spettatrici e gli spettatori a domandarsi più volte se ciò che vede sia reale oppure frutto delle ossessioni o dei demoni del protagonista.
Tuttavia proviamo a proseguire con ordine.
George Mullen – Robert De Niro torna finalmente a farci vedere il mostruoso attore che è – l’ex presidente più amato degli Stati Uniti, si accinge a pubblicare la sua autobiografia, con l’aiuto di una giornalista, Anna Sidler ( una Disturbante Hannah Gross) però le cose si complicano.
Quando Anna sta tornando alla sua redazione, dopo il colloquio con George, viene coinvolta in un terrificante attentato informatico, in cui un treno deraglia, facendo morire oltre 3000 persone.
Questo è lo Zero Day.
Questo è ciò che dà il titolo alla serie.
Scopriremo eccome chi sia stato ma, paradossalmente, quello sarà l’ultimo dei problemi.
George, su insistenza della moglie Sheila ( una strepitosa Joan Allen), accetta di presiedere la commissione d’inchiesta Zero Day, la quale, di fatto mette in standby tutte le libertà individuali e civili degli Stati Uniti.
Tutto ciò, ahinoi, è drammaticamente familiare e attuale.
Infatti tale commissione può arrestare e interrogare chiunque senza un mandato, senza che debba essere presente l’avvocato dell’arrestato e utilizzando metodi… insomma utilizzando le torture.
Ne sanno qualcosa tutti coloro che finiranno nelle loro mani, con o senza prove evidenti, primo fra tutti il giornalista complottista Evan Green – un meraviglioso Dan Stevens, che alterna l’essere mefistofelico a diventare sempre più pauroso e umano – il quale finisce per essere arrestato per delle foto create con il deep fake.
Familiare, vero?
E attuale.
A fornire queste false prove è l’assistente ed ex fidanzato di Alex, figlia di George, Roger Carlson – Jesse Plemons, attore davvero talentuoso che non conoscevamo – che ha sì qualche piccolo segreto da nascondere ma a ben vedere era forse la persona più buona lì in mezzo, insieme a Sheila e Alex.
Qui la faccenda si complica veramente al cubo e districare tutti i fili non è proprio semplice.
Alex e Roger si sono lasciati, non si sa manco il motivo ma si amano ancora e di fatto si vedono tutte le sere per divertirsi, diciamola così.
Alex è membro del congresso e non vuole assolutamente che il padre accetti di presiedere la commissione perché è convinta che ne verrà schiacciato.
Nemmeno lo speaker della camera, Richard Dreyer ( Matthew Modine, lui ancora più mefistofelico), lo vorrebbe e non solo perché è amico – e vorrebbe essere qualcosa di più – di Alex.
In tutto questo guazzabuglio chi ricatta Roger, è un miliardario, evasore di tasse e altri peccatucci ( Clark Gregg… sì sì Coulson del MCU… qui “simpaticissimo”), per via di alcune foto fatte ad Alex, in cui pare la stalkerizzasse.
Insomma queste foto false arrivano a George, il quale nemmeno si prende la briga di controllare e decide di andare ad arrestare Evan, senza un mandato, senza reali prove, in piena notte mentre il poveretto, dorme, in biancheria intima, con la moglie e dulcis in fundo tale arresto avviene davanti ai figli.
George arresta Evan per un solo reale motivo: in pieno delirio mentale – non è ben chiaro se dovuto da stress oppure altro – è terribilmente irritato di essere dileggiato, messo alla berlina dal giornalista, ad ogni episodio del suo talk-show complottista, che parla come se avesse chissà quali informazioni a sua disposizione. Informazioni che poi, alla prova dei fatti, non possedeva davvero.
Evan ha esagerato con i toni? Ovvio che sì.
Tuttavia… tuttavia i suoi allarmi sulle libertà personali messe in pericolo da una commissione dittatoriale non sono poi così campati in aria.
Soprattutto se basati sul nulla assoluto, su una sorta di caccia alle streghe, sulla volontà di far ricadere la colpa di un evento su una persona innocente, creando prove ad arte.
Quanto è facile “creare” un capro espiatorio, soprattutto se si tratta di un avversario scomodo o di una voce che fa sentire il proprio dissenso? Con le tecnologie di oggi, molto pure troppo.
La sua liberazione, a nostro avviso, è stata gestita in maniera molto, troppo, frettolosa e il suo “voglio tornare a casa” appena sussurrato, avrebbe meritato un ben più ampio respiro ma è il segno che qualcosa, è cambiato nel (ex?) giornalista. Come anche il fatto che, subito dopo, un altro cronista riporta che lui non ha fatto nessuna dichiarazione.
La paura può distruggerti la mente e Evan è chiaramente vittima di Disturbo da Stress post Traumatico, dopo le torture subite.
Prima abbiamo nominato Alexandra – Lizzy Chaplan riesce a tenere testa egregiamente a De Niro – vera coprotagonista della vicenda fin dal principio.
Quello che non ci si aspetta è che sia lei, peraltro in parte involontariamente, ad essere la chiave di tutto, in primis lo Zero Day.
Nel penultimo episodio veniamo a scoprire, infatti, che Alex ha accettato il piano dello speaker della camera, Richard Dreyer, attuato con l’essenziale aiuto dell’imprenditrice digitale Monica Kidder – Gaby Hoffman, altro membro eccellente del cast – una sorta di Bill Gates, Elon Musk e Steve Jobs al femminile.
E qual era questo piano?
Creare un piccolo attacco informatico per unire il paese.
L’intenzione era questa. Una buona intenzione.
Com’era il detto? L’inferno è lastricato di buone intenzioni.
Va però fatta una sostanziale differenza.
A Richard e Monica non interessa nulla se il loro piano ha provocato migliaia di morti innocenti. A loro interessa il potere.
Ad Alex interessa sul serio fare del bene: è stanca di vedere un congresso immobilizzato da stupidaggini – così come l’intera nazione – e non vuole assolutamente causare dei morti.
In tutto questo Alex è l’unica a provare del reale rimorso.
Sia per quello che il padre ha fatto perché lo conosce sa quali sono i suoi metodi, sia nel privato che in pubblico. Non ci vuole una scienza per capire che l’adorato fratello minore, Natan, si fosse dato alla droga e poi si fosse suicidato, per l’eccessiva freddezza del padre e per i suoi discutibili metodi educativi.
George ama i suoi figli e sua moglie?
Dobbiamo dargli atto di sì, a suo modo.
Il rimorso per la morte del figlio gli fa perdere quasi totalmente la ragione e si vede che soffre per l’allontanamento di Alex.
E cerca di proteggere la moglie.
Non si può nemmeno definire il classico uomo interessato solo al potere. Sarebbe troppo facile.
La miniserie rivela che si dimise poco prima della fine del primo mandato per proteggere la figlia illegittima avuta da Valerie Whitesell ( Connie Britton, anche lei assai convincente), sua consigliera ed ex amante ai tempi.
Dicevamo che Alex prova rimorso per le azioni del padre, si sente in qualche modo responsabile, come si sente responsabile dei morti che lei non voleva assolutamente causare.
Sia per i poveri morti dello Zero Day, sia per la morte del povero Roger.
George vede che è sincera, lo sa.
Dunque perché farle pagare uno scotto così alto?
Vero è la stessa Alex a consegnarsi e confessare però, onestamente parlando, noi siamo convinte che George decide di parlare per pulirsi la coscienza delle torture fatte a degli innocenti.
Richard Dreyer pagherà con la pena capitale ma Alex? La sua confessione la salverà dalla galera a vita?
Confessando la colpa della figlia – la meno colpevole però l’unica con una coscienza a quanto pare – distruggendo la propria famiglia, cosa pensa di ottenere? Si sente forse una sorta di Abramo che è disposto a sacrificare il figlio in nome di un Dio invisibile?
Zero Day ci lascia, alla fine, con tutti questi interrogativi irrisolti a fare i conti con temi scomodi ma molto attuali. Avrebbe sicuramente meritato un paio di episodi in più per lasciare respirare la storia nella maniera più consona, dando modo di mostrare alcune cose che, ripetiamo, sono forse state gestite in maniera troppo sbrigativa e frettolosa.
Un’osservazione che ci teniamo a fare: noi non vediamo l’attacco informatico. A parte un video nella metropolitana e l’incidente della povera giornalista, non ci sono altri segnali tangibili. Il che, per un po’, ci ha fatto chiedere se fosse avvenuto davvero. E anche nell’attacco finale, risolto dalla squadra di informatici della commissione, non vediamo cosa sta succedendo in tempo reale. Un vero peccato perché ha tolto un po’ di pathos all’evento in sé e, soprattutto, allo sforzo che quelle persone stavano compiendo.
Vogliamo fare una menzione speciale per il personaggio della Presidentessa degli Stati Uniti Evelyn Mitchell, interpretata da una meravigliosa Angela Bassett, forse uno dei pochi che ne esce davvero in maniera pulita. Tutto ciò che fa, è volto a proteggere il suo popolo: l’istituzione della Commissione, riconoscere che il suo ex avversario ha il carisma necessario per portare avanti il progetto. Rischia di fare alcuni errori, in buona fede, perché crede di avere la verità in mano e cerca di forzare le indagini di George non perché vuole metterlo in cattiva luce ma semplicemente perché teme che, tutto ciò che sta avvenendo, crei sempre più la sensazione di insicurezza e fragilità dello stato in sé e delle persone che lo abitano ed è qualcosa che lei non può tollerare. Ci sono momenti in cui ha persino messo in discussione l’operato di George e gli ha detto, apertamente, “spero che tu sappia cosa stai facendo”.
A nostro avviso, è la leader che ogni stato dovrebbe avere. Intelligente, determinata, empatica, capace di ammettere i propri errori quando li compie ma soprattutto che ha a cuore la salute e la sicurezza dei suoi cittadini.
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